lunedì 31 maggio 2010

Holy Smoke- Fuoco Sacro (1999)

Un film di Jane Campion. Con Harvey Keitel, Kate Winslet, Pam Grier, Paul Goddard. USA 1999.

Ruth (Kate Winslet) è una bella ragazza australiana che si reca in India alla ricerca di una nuova spiritualità. Quando la famiglia viene a sapere che Ruth viene plagiata da un Guru del posto, preoccupata, decide di affidare a P. J. (Harvey Keitel), consulente spirituale, il compito di riportare a casa la ragazza.

Questa volta Jane Campion abbandona le tonalità scure di eroine in continua ricerca della loro libertà per arrivare a quelle più dorate e calde della spiritualità, dell'India e di Anna, ragazza già emancipata che al contrario delle sue “colleghe” Ada e Isabel vuole invece disfarsi della sua vita.
Reduce da due capolavori come The Piano e Ritratto Di Signora, Holy Smoke non è all'altezza dei due film precedenti ma può essere inteso comunque come un degno esperimento dedicato alla pricerca della spritualità tipica della donna moderna. Ruth, ragazza sveglia, tenace, sensibile (resa magnificamente da una Kate Winslet reduce da Titanic) è l'evoluzione delle altre donne che la Campion ci ha raccontato. Una ragazza finalmente capace di disporre della sua vita e della sua sessualità e per questo alla ricerca di nuone sensazioni.
Ruth è il primo personaggio veramente forte della filmografia della Campion, non più vittima ma “carnefice”, non pià sottomessa alla famiglia alla società ma sarà lei a sottomettere alle sue volontà chi le sta accanto. La sua evasione in India è molto più che un capriccio, è la voglia di scappare da un mondo di ipocrisie e consuetudini conservatrici.
Purtroppo, il rapporto tra Ruth e il suo “salvatore” P.J. non sembra avere quella naturale esigenza di esistere e sembra sopravvivere più per disperazione. Tuttavia è curioso vedere chi in questo rapporto amore/odio sia davvero il salvatore. Una situazione di ambiguo desiderio di trovarsi l'uno accanto all'altra che lentamente evince come la “spiritualità” si possa trovare sopratutto nelle cose più semplici.
Natura arida, selvaggia, paesaggi australiani che sembrano post-apocalittici offrono uno scenario perfetto a questa vicenda. L'ambiente neutrale di una natura completamente immobile e osservatrice che lascia libero sfogo alle azioni di Ruth e P.J.
La regia della Campion è precisa, forse fin troppo, alcune volte rischia di rasentare il manierismo e l'attenzione per la forma spesso ruba l'anima alle situazioni. Inutile dire che la solidità delle interpretazioni della Winslet e di Keitiel aiutano il film ad alzarsi molte volte dalla ripetitività immobilismo.

In The Mood For Love (2000)

Un film di Wong Kar-wai. Con Tony Leung, Maggie Cheung, Rebecca Pan, Lai Chen, Gong Li Drammatico, durata 98 min. - Hong Kong 2000
Hong Kong 1962. L'impiegata Su Li-zhen e il giornalista Cho Mo-wan, entrambi di Shangai e sposati con coniugi spesso e volentieri assenti per lavoro, s'incontrano nella casa dove abitano porta a porta, stringono un'amicizia amorosa, rafforzata dal comune sospetto di una relazione tra i rispettivi coniugi.

L'eleganza in un film, quella pura e semplice, non costruita, ma spontanea e libera, è davvero cosa rara e difficile da creare. Ma non per Wong Kar Wai, che realizza un opera di finissima raffinatezza e di una bellezza magistrale. I corpi fluttuano e volano delicatamente come delle foglie mosse dal vento e le complessità delle due anime protagoniste insieme alla sublime finezza dei loro gesti sono la cornice perfetta di un film che parla d'amore, in tutte le sue forme. L'amicizia, la gelosia, la fiducia, la rabbia, la tristezza sono solo dei momenti che Wong immobilizza col rallenty e li rende magicamente sensuali sulle note Michael Galasso.
Si sentono gli odori, si sentono i sapori, si vedono vivaci i colori di un amore che rimane segreto e sopito, sonnolente e inafferrabile. Come si sentono inafferrabili i due protagonisti che hanno paura anche solo di sfiorarsi e che solo alla fine troveranno il coraggio di toccarsi, con il loro amore che si trasforma velocemente in un sogno proibito, una partita persa a majong, un passato che si può “solo vedere ma non toccare”. Una regia limpidissima e così attenta a non perdere neanche una briciola di un amore tra due solitudini che si incontrano, quella magia dell'amore nato per caso e non per desiderio, nato per il rispetto del dolore altrui, nato per condividere una tristezza comune. Tony Leung e Maggie Cheung recitano così sinceramente e così delicatamente che sembrano delle piacevoli brezze estive, e ritraggono perfettamente la malinconia di una consapevolezza che il loro sarà un amore segretamente e gelosamente custodito per sempre tra le mure di un templio.

Heat- La Sfida (1995)

Los Angeles. Un rapinatore, McCauley (Robert De Niro) e la sua fedele banda criminale segnano un colpo spettacolare ad un furgone portavalori. Chiamata ad investigare è la squadra rapine e omicidi, capeggiata da un incrollabile poliziotto, Vincent Hanna (Al Pacino) che fiuta subito l'odore di una preda difficile.

Spesso è difficile trovare delle giuste chiavi di lettura in film complessi come Heat. Il film di Michael Mann tuttavia può essere scisso in due storie che sommandosi danno vita alla vicenda del film stesso. La prima storia è quella del gangster Neel, uno tutto d’un pezzo, glaciale, quasi irreale, vestito sempre di completi scuri e con una rigida disciplina che sacrifica affetti, amori, sentimenti. L’altro è il tenente Vincent, anche lui uomo rigido ma travolto dall’incapacità di saper coniugare giustamente amore e lavoro. Il primo è totalmente privo di una capacità affettiva, o quasi, poiché, forse nel momento più insolito della sua vita, decide di innamorarsi di fidarsi, di lasciarsi andare. Il secondo invece nel momento sbagliato si rende conto che non può in alcun modo sacrificare nulla della sua vita o del suo lavoro, non riesce a comunicare anche se vorrebbe, non riesce a liberarsi dei suoi tormenti. Cos’hanno in comune queste due figure, simbolo di una città come quella di Los Angeles, costellata da criminali e poliziotti, tutti dediti più alla sopravvivenza che al rispetto delle proprie regole? E in cosa sono diversi? Se Mann ci propone una visone sentimentalistica e affettiva dei due personaggi, risulta naturale non solo confrontarli caratterialmente ma anche intellettualmente. Quali sono i loro scopi, i loro fini, le loro idee, le loro opinioni? Anche se entrambi eseguono i loro mestieri con sorprendente, quasi inusuale, meticolosità, uno (Neel) lo fa per scruopolo, per professionalità l’altro (Vincent) lo fa per svago e soprattutto per esigenza.

Neel ha fini, Vincent ha scopi. Mann ci fa capire quanto entrambi si sentano così simili, ma anche così distanti proprio per le differenze che definiscono le loro vite; ma sentono che c’è una qualità che li avvicina, quasi come due amici d’università, quasi come due compagni di gioco d’infanzia: la necessità di sopravvivere, chi alla sua vita, chi ai suoi demoni. Ma non è solo questo il tema che Mann ci propone, non è solo il confronto fra due facce della stessa medaglia che ci vuole offrire. Un altro aspetto è quello della vendetta, un altro è quello dell’amicizia, un altro è quello dell’abnegazione, tanti spunti che insieme offrono una panoramica dei sentimenti più comuni, ma anche più deleteri se compaiono nel momento inopportuno. La bravura dei due attori protagonisti Pacino e De Niro non può essere commentata poiché è difficile aggiungere qualsiasi cosa alla perfezione. Si incontrano solo in due scene, ma è giusto così, è giusto che entrambi abbiano i loro ruoli, il loro personaggio incondizionato dall’altro ma vicino all’altro. Uno distaccato, uno concreto; uno etereo, uno terreno. Così diversi nei loro caratteri ma così simili nei loro difetti, nei loro pensieri. La scena finale è pura poesia, la scena della caffetteria magistrale. Due attori, due tipi di recitazione a servigio di una regia che è impeccabile. Un regia notturna in una città come Los Angeles teatro bellissimo e suggestivo di una scena sofferta. Una regia nobile, sofisticata, pura, limpida, libera da ostacoli. Un film che è Cinema davvero, e per una volta non si deve avere remore di chiamare capolavoro un opera intensa, intrisa di passione, di vorace poesia.

Revolutionary Road (2008)

Un film di Sam Mendes. Con Kate Winslet, Leonardo DiCaprio, Kathryn Hahn, David Harbour, Kathy Bates, Richard Easton, Michael Shannon, Sam Rosen, John Ottavino Drammatico, durata 119 min. - USA, Gran Bretagna 2008.
April e Frank sono una coppia felicemente sposata, con due bambini, una bella casa e una vita assolutamente ordinaria a Revolutionary Road. Almeno, questo è ciò che pensano i loro vicini. Dopo una furibonda lite in cui April accusa il marito di averla "rinchiusa" in un sobborgo e di averne soffocato l'esistenza, Frank torna al suo odiato lavoro di impiegato, e April cerca consolazione nei ricordi dei tempi felici.

Difficile capire davvero che cosa abbia voluto significare questo Revolutionary Road. Anche perchè il libro di Richard Yates pubblicato nel 1961 è stato, ed è, un simbolo della letteratura americana che alla fine degli anni 50 decretava la morte del modello tipo della famiglia borghese, distruggendo per sempre il sogno americano. Si perchè se il libro aveva un suo perchè e un suo significato, il film di Mendes non ce l'ha proprio, o meglio dire, non sa trovarlo. Si ferma in una trasposizione pura e semplice senza donare quel tocco di innovatività che sarebbe servita a rendere moderna questa parabola di ipocrisia. Il Revolutionary Road di Mendes manca l'obiettivo di una critica forte al modello familiare americano, rimandendo sempre in bilico tra l'esporsi e non volersi sbottonare troppo, Mendes lancia il sasso ma nasconde subito la mano; ed è questa indecisione che intorpidisce il meccanismo principale di critica e di analisi. Le mancanze del film sono celate da una recitazione di maniera dei due protagonisti Winslet e DiCaprio che impressionano il pubblico con grida e sfuriate di rabbia, ma che inevitabilmente sforano nell'eccessiva enfatizzazione delle emozioni, ma rimangono comuque sinceri mantenendosi in un livello di palpabile sofferenza. Ma questo è merito esclusivamente del loro talento, non della regia di Mendes che li abbandona per dare più importanza allo stile troppo accademico e fa perdere alla narrazione tutto il suo significato. Manca l'universalità, manca il senso critico, manca l'autorevolezza di un giudizio, insomma manca la presa di posizione, forse perchè Mendes, regista inglese americanizzato, non voleva sconvolgere la platea americana puntando di più sul ritorno della coppia "titanica" Winslet-DiCaprio più che sul contenuto del film, che alla fine dei conti non ha molto spessore. Si può dire che il film non è di Mendes ma dei due protagonisti, mossi dalla macchina pubblicitaria alle stelle privando il film del giusto obiettivo da raggiungere. Chi si aspettava di vedere un film sugli antenati della famiglia Burnham rimarrà completamente deluso. Revolutionary Road è un film dall'eccessivo gusto retrò, con un bella cornice tecnica che ha solo funzione estetica, ma manca di spirito e di decisione.

lunedì 17 maggio 2010

Robin Hood (2010)

Un film di Ridley Scott. Con Russell Crowe, Cate Blanchett, William Hurt, Mark Strong, Mark Addy, Oscar Isaac, Danny Huston, Eileen Atkins, Max von Sydow, Léa Seydoux. durata 148 min. - USA, Gran Bretagna 2010. - Universal Pictures
Abbiamo un soldato, crudo, ruvido, leale, che combatte per il suo sovrano giusto e per la sua patria gloriosa. Ma presto si trasformerà in un eroe per fronteggiare gli arroganti, i potenti, e dar voce ai tanti mortificati dall'ingiustizia, troverà anche l'amore tra le braccia di una vedova. Dirige Ridley Scott con Russel Crowe nei panni del protagonista.
No, non stiamo parlando de Il Gladiatore ma di Robin Hood. O meglio, dell'idea (o forse è meglio dire non-idea) che l'ormai spento e stanco Ridley Scott ha di Robin Hood. In realtà il film non è male, ma se si pensa che dirige colui che ha sfornato capolavori quali Blade Runner o I Duellanti e che le similitudini con Il Gladiatore sono tante, pesanti e anche fin troppo imbarazzanti, allora purtroppo non si può essere tanto clementi. Perchè non è concesso neanche all'ultimo degli incapaci riprendere un film che ti ha (ri)dato la gloria, rimescolarlo, metterci un po' di aglio, sale, frecce e qualche calzamaglia e pretendere di essere preso sul serio. Semplicemente non si può, neanche con tutte le più belle intenzioni. Questo Robin Hood non è un film fatto male, ma è un film che è di una tristezza inaudita nella pochezza delle intenzioni e nello spirito della realizzazione.
Russel Crowe non fa che ripetere se stesso; Cate Blanchett sembra spaesata tanto quanto lo era Connie Nielsen (stranamente entrambe interpretano una vedova); Max Von Sydow relegato al solito ruolo del vecchio decrepito ma saggio dispensatore di verità (un po' come il Proximo di Oliver Reed); Oscar Isaac ricalca le orme di Joaquin Phoenix ma rimanendo nettamente meno convincente e più stereotipato del suo antenato romano, comunque resta il migliore del cast. Insomma, le premesse di un Massimo Decimo Meridio in calzamaglia si sono avverate tutte. Il film, meglio precisare ancora, non è poi così brutto o mal fatto, ma è banale, superficiale, da artigiano. Non da artista quale era Ridley Scott.

Jeanne Dielman, 23, quai du Commerce, 1080 Bruxelles (1976)

Regia di Chantal Akerman. Belgio 1976. Durata 201'.
Tre giorni nella vita di Jeanne Dielman costretta a prostituirsi per mantenere se stessa e il figlio adolescente.
Jeanne Dielman, 23, quai du Commerce, 1080 Bruxelles nella sua titanica lunghezza (più di 3 ore), più che una rappresentazione universale-generale della figura femminile post-68 e post-moderna, è sopratutto il ritratto molto intimo e molto silenzioso di una donna comune intrappolata nella sua quotidiana lotta alla sopravvivenza, più che dal mondo, da se stessa. L'involucro di apparente pacatezza si incrina quando il limite di sopportazione si fa via via più sottile e la pazienza si esaurisce. E' un film che nella sua struttura orizzontale riesce a dare un crescendo alle emozioni sopratutto grazie alla carta dell'esasperazione, cioè che sembra ripetersi all'infinito, i movimenti, i gesti, gli ambienti, in realtà si differenziano per il sempre maggiore parossismo, per un film che più di un tratto diventa morboso.

Nell'avanzatissimo Belgio di metà anni 70 la donna-oggetto è quanto mai presente, alla stessa guisa di altre realtà, e allora forse l'universalismo dell'opera di Chantal Akerman (che avrà grande influenza nei cinneasti come Gus Van Sant e Todd Haynes) è proprio questo: l'omologazione della figura femminile, nel suo essere per l'uomo prima oggetto e poi persona, persona che spesso non viene neanche scoperta. L'universalismo nella figura di Jeanne Dielman è proprio questo: la donna vive in una costante oppressione che si alterna alla noia che sfoga un po' nell'appropriazione di questa figura-oggetto e nel suo successivo liberarsi, spesso con violenza e spesso con dolore.
Inutile dire che sia un film femminista, lo si capisce anche dal titolo, ma la cosa interessante è che il femminismo si slega da tutti quei luoghi comuni tipici del movimento e non ha paura di mostrare una donna veramente donna con tutti i suoi annessi (compreso l'orgasmo che arriva al terzo giorno, uno dei punti massimi del climax). Delphin Seyrig tanto brava quanto rarefatta, ambigua, inafferrabile.

giovedì 6 maggio 2010

Ritratto Di Signora (1996)

Isabel Archer, americana rimasta orfana e adottata da un suo ricco zio inglese, rifiuta due vantaggiose proposte di matrimonio desiderosa di libertà e di conoscenza del mondo, ma divenuta ricca grazie all’eredità lasciatale dallo zio, finisce per sposare Gilbert Osmond, uno snob in cerca di denaro. Solo alla fine aprirà gli occhi e si accorgerà degli intrighi di cui è stata l’inconsapevole oggetto.

Splendido, sofisticato, elegante. Si potrebbe paragonarlo ad un quadro di Botticcelli, dove nessun colore è fuori posto, dove la luce si alterna all'ombra in una armonia pressocchè perfetta. Tutti i personaggi sono dipinti con estrema maestria, ma a differenza di un quadro, i colori cambiano con il proseguire della storia: i loro volti mutano, i loro carretteri si trasformano. Ma per il resto sembra di vedere un dipinto dove la pace delle forme prende il sopravento su tutto. Si potrebbe paragonare anche ad un opera di Schubert, dove un sottile suono di pianoforte unito a quello violento ma anche dolce di un violino, trasforma questo film in un turbine di sentimenti tanto diversi tra loro, ma che in realtà hanno la stessa origine. Isabel è una ragazza come altre che attraversa il processo di crescita per diventare donna scoprendo nuovi sentimenti: amore, rabbia, dolore. Profondamente sconvolta dalla forza di questi sentimenti, Isabel si prende la piena responsabiltà delle sue azioni, ma non riesce a darsi pace per essere stata così ingenua, così bramosa di tutto, così bramosa di vita. Ma per quanto le possa sembrare giusto farlo, proprio per questo desiderio di vita non riuscirà mai a biasimarsi. Isabel ritrova se stessa accettando quella voglia di vivere che credeva di aver perduto nella perfidia di chi la circonda. Ci riuscirà? Questo non lo sapremo mai, perchè lo spettatore decide da se quale destino ella dovrà affrontare. Il finale aperto ci comunica tutta la commozione della regista, nello specchiarsi in una figura, come quella di Isabel, profondamente attuale per ciò che rappresenta: il cambiamento, la crescita, la vita, e tutto quello che ne consegue.
Sarà importato poco a Nicole Kidman se è finita in esaurimento nervoso e dovette rimanere per 2 settimane a letto, quando il risultato è stato vedere questa Isabel Archer così fedele a quella immaginata dalla Campion e scritta da Henry James. E' senza dubbio una delle sue prove più grandi. La sua è, una Isabel simbolo dell'ingenuità e freschezza del nuovo mondo americano che si ritrova immersa in un mondo europeo cinico, e vecchio dove i sentimenti sembrano scomparsi tra intrighi e interessi. Isabel simbolo della condizione femminile combattuta tra i sentimenti e la razionalità fin troppo fredda del mondo. Straordinario il prologo “My Life Before Me” con angeliche ragazze del nostro tempo che danzano, si guardano, parlano. Isabel Archer è in ognuna di loro.

Lezioni Di Piano (1993)

Un film di Jane Campion. Con Holly Hunter, Harvey Keitel, Sam Neill, Anna Paquin, Cliff Curtis Titolo originale The Piano. Drammatico, durata 119 min. - Australia, Francia 1993

Ada, donna scozzese muta dall'età di 6 anni, assieme alla figlia Flora di 6 anni si mette in viaggio per un'isola della Nuova Zelanda dove è stata data in sposa ad un burbero esploratore, Alistair. Ma quello che più preme ad Ada è il suo pianoforte, portato con fatica dalla Scozia di cui è incapace di disfarsene.

In una fotografia dai colori olivastri con giochi di luci e ombre, e in poetiche e sommesse atmosfere, Jane Campion delicatamente si avvicina ad Ada e la scruta senza giudicare, la accompagna silenziosamente verso questo viaggio di resurrezione dalla vecchia vita alla ricerca di una nuova.
Grande attenzione alla natura, elemento da subito vivo nel film, che costanemente interagisce con loro e ne amplifica il significato delle azioni.
Tutti gli attori in stato di grazia, una grandissima Holly Hunter che con mesta umanità riesce a dare volto a questa Ada dolorante, senza mai risultare banale, o forzata; Harvey Keitiel è perfetto nella parte dell'ombroso George, sta nel suo carisma la forza fisica e sessuale del film; Sam Neil riesce nell'intento di risultare sgradevole nell'interpretare Alistair, uomo mediocre che trova giustificazione solo nell'ottusità e nell'ignoranza; la piccola Anna Paquin esordice grandiosamente nei panni della piccola Flora, bambina sveglia e attenta alla quale non sfugge il disagio della madre ma cercherà di darle il suo appoggio non con la compassione ma con una mite comprensione.
Che cosa rende Lezioni Di Piano uno dei più grandi capolavori degli anni 90 è la sensibilità che la regista Neozelandese Jane Campion dona a questo ritratto di donna, quasi proto femminista capace di emanciparsi, anche se a fatica, con l'aiuto di un amore inaspettato frutto della naturalezza lontana dalla rigidità del vecchio mondo. Ed è questa differenza tra vecchio e nuovo il punto di partenza dal quale tutta la vicenda si sviluppa. Una vecchia Ada intrappolata nella sua condizione e nel suo ruolo di madre e moglie trova il modo di evadere non solo nella sua musica ma anche in questa nuova situazione di amante. In una terra dove tutto è ancora nuovo e da scoprire, Ada scoprirà lentamente nuovi lati del suo carattere e della sua esistenza. Il suo rapporto con George dapprima solamente sessuale, pian piano prosegue andando molto più in la dei semplici copri. La solitudine che li accomuna si trasforma in un rapporto di reciproca comprensione superando l'ostacolo di essere due corpi. Ora sono molto di più, sono amanti, sono due persone che sanno di poter vivere forse per la prima volta.

lunedì 3 maggio 2010

Vendicami (2009)

Un film di Johnnie To. Con Johnny Hallyday, Sylvie Testud, Anthony Wong Chau-Sang, Lam Ka Tung, Lam Suet. Titolo originale Fuk sau. Azione, durata 108 min. - Hong Kong, Francia 2009. - Fandango

Una donna, un uomo, due bambini. Lei di origine francese, lui cinese. All’improvviso la morte che entra in casa per mano di sicari che compiono una strage. Solo la donna si salva. Suo padre, Costello, raggiunge l’Estremo Oriente con un proposito preciso: vendicare la morte del genero e dei nipoti.

"Vendicami" di Johnnie To è spassionatamente e spudoratamente un omaggio al cinema di Melville, noir vecchio stile anni '70 ancora impregnato da quell'asciuttezza della Nouvelle Vague che si mischia al pulp. L'eroe di To (non a caso anche lui di nome fa Costello) è l'angelo vendicatore che si trova a fare i conti con un destino amaro, poco chiaro e che torna prepotentemente dopo anni.
I riferimenti non si fermano però a Melville, e spaziano anche nell'action movie americano nel raccontarci la storia di questo anti-eroe (si sentono anche echi di Eastwood) che non tenta neanche di costruirsi una vita normale perché consapevole della sua natura, ed è proprio questo che pone in rilevanza un problema di "relativismo" nella sua vita e in quella di chi lo circonda: che cosa è normale? Siamo sicuri di sapere cosa sia normale o no in un mondo goverato dalle Triadi? Ed è per questo che Costello (un acerbo, ermetico, impenetrabile Johnny Hallyday) costruisce una sua vita lontano da tutti e da tutto in previsione di ciò che deve accadere. Lo stile pulp si sente, è presente, e si addice benissimo a questo ritratto di mafia tutto orientale, fatto di codici d'onore, di regole, miti, leggende, costumi. Un sotto-stato, un mondo sotterraneo dove tutto è sospeso e intrappolato in una cornice di forza brutale e di violenza ma anche satura di ricordi, quelli che tengono in vita l'onore, la gloria, la Storia stessa della mafia di Hong Kong.
Dialettica tra innovazione e tradizione, tra l'allontanarsi da un passato pesante e rimanere ancora ancorati ai propri ricordi, compresi quelli legati alla mafia cinese, la famigerata Triade, forse meno famosa della Yakuza giapponese (grazie anche ad una ben più impressionante cinematografia, da Takashi Miike a Takeshi Kitano) ma anch'essa un'organizzazione violenta, feroce, terribile, sempre avvolta da un'aura di mistero, ambiguità, leggenda che è imbevuta di Storia. Il Costello di To cerca di sconfiggere questa Storia e il dolore della storia della sua vita ponendo la parola fine con il marchio della vendetta; in questo viaggio allucinante l'assenza di eccessivo pathos rende ancora più convincente la narrazione.
Un film che parla di due mondi che si incontrano, di una mafia ricca di Storia, una delle più antiche del mondo che ormai ha più di 300 anni (la prima forma di mafia cinese nasce intorno al 1760 col nome Tian Di Hui -Società del cielo e della terra-)., e di un uomo, con la sua storia infinitamente più piccola ma non meno importante. Perché di fatto la Triade ci insegna che la Storia è fatta da quelle dei singoli individui che la compongono e che insieme la rendono grande.

Pubblicato su Loudvision.it i 03/05/2010: