lunedì 25 ottobre 2010

L'Ultimo Buscadero (1972)

USA, 1972, Commedia, durata 102'] Regia di Sam Peckinpah Con Steve McQueen (I), Robert Preston, Ida Lupino, Ben Johnson

Junior Bonner è figlio di un ex campione di rodeo che ora coltiva il sogno di trasferirsi in Australia in cerca dell'oro. Ma anche la carriera di Junior è in declino.
Come Sam Peckinpah. racconta l'America non lo fa nessuno e mai nessuno ci riuscirà. Maestro della New Hollywood, P. ci regala ancora una volta una storia tutta pregna di quel candore misto disincanto che la rude provincia americana possiede. Desideri, illusioni, sogni infranti, sono loro le componenti di una provincia così innocente e pura ma anche ingenua, affezionata a rodei, pacchiane sfilate che celebrano quel sogno americano mai arrivato. Junior Bonner e suo padre sono quelli che il sogno l'hanno assaporato, ma per troppo poco, e per questo che amareggiati cercano di riprenderlo ma con l'amaro in bocca di chi ha sprecato troppo presto un'occasione.
Difficile ricostruire i cocci di una vita spesa a sprecare quel poco che ha saputo offire e ora è difficile reagire alla sua vendetta che si articola in delusioni, amarezze, sconfitte. Junior e suo padre sono due uomini americani che non credono alle staccionate bianche e alla berlina parcheggiata nel garage, sono uomini che credono al destino metà costruito dall'uomo e metà servito su un piatto di pessima porcellana fin troppo fragile. Questa però è l'america di Sam Peckinpah: l'america delle occasioni mancate, delle camice sgualcite e dei cappelli da cowboy bucati; dai jeans sdrucidi e polvere sui parabrezza di vecchie cadillac. E' un america vera, poco piacevole ma che esiste, e forse per questo ancora più bella.
Un buscadero non è altro che quel sogno americano mancato, un'occasione persa; non è altro che polvere, fango, vento secco e un gigolio dal suono metallico di una macchina arrugginita.
E c'è poco da dire su Steve McQueen, e su quella sua faccia sporca e sciupata di chi ha vissuto e bevuto troppo; occhi stanchi come due fuochi spenti che trascinano due gambe indolenzite ma che si muovono solo per riavere una rivincita. Vincere sulla vita e sull'America. Steve McQueen, Sam Peckinpah, sono loro la vera America, ma questa volta Dio non la benedirà.

giovedì 14 ottobre 2010

Random Thoughts # 7

Ciapaiev (1934)
Nient'altro che un (bel) film di propaganda sovietica, questa volta però l'eroe socialista ha il volto più umano e sensibile, assomiglia quasi ad un Joh Wayne bolscevico, rude e crudo, dalla scorza dura ma dai principi nobili. Un erore quasi romantico. Alla fine la propaganda rimane in secondo piano, e si è colpiti da questa bell'avventura.



L'altro Uomo (Delitto Per Delitto) (1951)
Uno dei film minori di Hitchcock ma non minore nella qualità. Personaggi dal comportamento ambiguo ma delineati nelle loro forme con precisione quasi chirurgica, inquadrature ad effetto (molto bello il prologo). Un po' troppo scontato forse, la suspance non ha secondi fini, c'è meno filosofia ma è la suspance come la intende Hitchcock, e va benissimo così, non c'è bisogno di aggiungere altro.

La Fiammiferaia (1989)
Non c'è recitazione, dialoghi ridotti all'osso, frammenti di una vita soffocata e inesistente resa silenziosa dal chiasso dell'esterno (il rumore assordante della fabbrica e il rumore delle tragedie del mondo). Scene spezzate, azioni impregnate di nichilismo, non c'è speranza, non ci sono scelte autonome, solo scelte derivate dal caso. Un film esasperato ed esasperante. Gelido, ghiccia fino al midollo.


Alla Tredicesima Ora Della Notte (1969)
Un'opera fuori di testa, nel vero senso della parola. Pazzoide, schizzato musical di “auguri per il nuovo anno” pieno di iornia e di giovialità ma che nasconda una velata sensazione di malinconia e di “verso” al cinema americano e una critica a quello sovietico ancora troppo indietro. Un musical dall'impianto moderno senza dubbio ma con elementi peculiari della filmografia sovietica classica (il canto tradizionale popolare non poteva mancare) . I russi hanno fatto pochissimi musical si contanto sulle dita di una mano, ma quando lo fanno si hanno semore buoni risultati e interessanti prodotti.

lunedì 11 ottobre 2010

La Pecora Nera (2010)

Un film di Ascanio Celestini. Con Ascanio Celestini, Giorgio Tirabassi, Maya Sansa, Luisa De Santis, Nicola Rignanese, Barbara Valmorin, Luigi Fedele, Alessia Berardi, Alessandro Marverti, durata 93 min. - Italia 2010. - Bim uscita venerdì 1 ottobre 2010.
Nicola è un trentacinquenne che ha vissuto tutta la vita in manicomi, da bambino quando andava a portare le uova con la nonna, poi da grande come paziente. La sua vita è scandita dal fare la spesa con una suora, dai semplici lavoretti da giardinaio. Finchè incontra Marinella, vecchia compagna di scuola e suo primo amore. Da qui le cose si complicano.

Ascanio Celestini, dopo anni di teatro, si cimenta per la prima volta con un film di finzione (dopo due documentari per la Fandango) e racconta uno degli aspetti più difficili del genere umano: la malattia mentale.Orientativamente ambientato tra gli anni 60 (i favolosi anni 60) e gli anni 2000, La Pecora Nera è un lucido, ma illogico, viaggio nella malattia di Nicola, trentacinquenne con un'infanzia difficile quanto pittoresca popolata da situazioni e personaggi grotteschi. Nicola è il matto che diventa racconto, con la nonna che vende le uova; che mangia i ragni e che va a fare la spes;, che non ha mai fatto la guerra e che ama Marinella. Quanto sarebbe normale una vita del genere senza quella fastidiosa etichetta di "matto"? Celestini ce lo fa capire cambiando matto con santo. I matti del manicomio che è in realtà "un condominio di santi".
Ma chi è Nicola? Celestini ci proprone il ritratto curioso e doloroso di un bambino e di un uomo da guardare con gli occhi da "santo". E questo sguardo è privo di ogni cenno critico, infatti è solo Nicola a poter dare un parere sulla situazione e vendica il suo diritto di esistere e che combatte in solitario la sua piccola battaglia dopo che il mondo, la società lo hanno abbandonato.Celestini è molto abile nel raccontare questo aspetto: i matti, vengono quasi sempre abbandonati, da tutti: società, stato, familiari. Come i santi, come i martiri, lasciati al loro destino di morte (mentale prima che fisico). Nel personaggio di Nicola è racchiuso tutto il malessere della solitiduine tutta la tristezza di sentirsi addosso il peso dell'abbandono, i pazienti del manicomio assumono più le sembianze di animali e di soprammobili di cui nessuno si occupa. Questo è il calvario che i "santi matti" devono sopportare giorno dopo giorno.
Celestini è bravo, costruisce un bel racconto ed è sensibile, mai inopportuno. Ci regala un film con il cuore, ricco di risate amare alla Charlie Chaplin, Basaglia affermò nel 1978 che non è più necessaria la "costrizione" dei manicomi da sostituirsi con istituti mentali, senza rendersi conto che la costrizione della situazione specifica resta sempre e comunque. Celestini offre un modo tenero e malinconico di rendere questa costrizione un po' più leggera e facile da accettare. La legge Basaglia avrebbe dovuto ridare dignità alla condizione del malato mentale in Italia ma c'è da dire che la chiusura effettiva di tutti i manicomi non è mai avvenuta veramente e che soprattutto la condizione del malato mentale non è ancora socialmente accettata e ancora oggi, dopo più di 30 anni dalla legge che avrebbe dovuto riabilitare la figura del "matto" ancora si deve combattere con ostacoli di ogni genere, soprattutto sociali. Nicola capisce quali ostacoli deve superare per vivere e per poter raggiungere il cuore di Marinella (compagna di scuola, unico amore della sua vita), ma come si può superare un ostacolo quando non si conoscono le cause? Nicola è consapovole della sua malattia? Forse non completamente, anche perché è nato e cresciuto in un ambiente malato ed è questo l'unico linguaggio che conosce e l'unica possibilità che gli si è paventata. Allora il Nicola di Ascanio Celestini diventa simbolo di un malessere dovuto al fatto che non sempre i matti sono nati matti e che per questo meriterebbero più cura e attenzione non solo medica. Con un finale che è un pungo in pieno viso, rientra in pieno il messaggio di come sia necessario che nasca un senso di responsabilità etica nell'occuparsi di coloro che entrano nel buio della mente. Tutti dopotutto hanno paura nel buio, allora perché non darsi una mano?

lunedì 4 ottobre 2010

Simon Del Deserto (1965)

Un film di Luis Buñuel. Con Claudio Brook, Enrique Alvarez Felix, Hortensia Santavena Titolo originale Simón del desierto. Fantastico, b/n durata 42 min. - Messico 1965.

Simon, eremita che da 8 anni, 8 mesi e 8 giorni vive su una colonna di pietra in penitenza, povertà e preghiera, rappresenta o meglio dovrebbe, ciò che per la fede è il cristiano perfetto. Ma la perfezione, si sa, appartiene solo a Dio, ed è per questo che Simon, a tutti gli effetti si dimostra un fallimento come uomo e come cristiano. L'uomo che scioccamente crede di potersi avvicinare alla perfezione cristiana scavalcando addirittura la Chiesa (Simon, rifiuta gli ordini sacerdotali), l'organo che per Bunuel senza mistero considera la nemesi della figura di Cristo.
Quando un uomo decide, deliberatamente, di vivere alla lettere i dettami cristiani, pur illuminato da principi cristallini, rimane comunque un essere umano, imperfetto e limitato ma ancor più vulnerabile alle tentazioni terrene. Quello che Gesù non ha mai insegnato è di sottrassi alla vita, ma di vivere adottando i suoi principi. E quando Simon si ritrova in mezzo alla vita, quando davvero vive e sente e percepisce e assorbe le pulsazioni e le vibrazioni delle vita, che cosa fa? Non ci è dato saperlo. Il film per problemi di produzione finisce in modo enigmatico. A chi crede e a chi no, viene dato il privilegio di decidere la sorte di Simon, diventerà peccatore “vivente” o tornerà al suo viaggio spirituale lontano dalla vita che Dio ha dopotutto costruito per gli uomini?
La vita appunto, oppure Satana, oppure l'avvenente donna, la maliziosa studentessa, la procace donna barbuta...Tanti volti, un unico scopo: tentare Simon. Ci riuscirà o fallirà? Non ci è dato saperlo.
Quello che è certo è che Simon Del Deserto è blasfemo tanto quanto è sacro, e sopratutto smonta pezzo per pezzo, tagliuzza chirurgicamente la figura del sacerdote, distrugge la concezione cristiana dello spirito distinto dal corpo, dello spirito superiore al corpo. Uno spirito che non vive con il corpo alla fine è debole e il sacerdozio può essere considerato un rifugio, un modo di evadere dal mondo, una colonna, una torre d'avorio dove ci si può proteggere dalla vita. Demolisce uno dei pilastri portanti della Chiesa terrena.
Dio in fondo, si è fatto uomo, è stato carne, ha vissuto, ha mangiato e bevuto, non dispiaceva la compagnia degli amici, le buone risate, e Bunuel incalza e cavalca la polemica passando dall'estremo Simon all'estremo del XX secolo, epoca di bagordi e lussuria, dove è difficile credere che i valori del Cristianesimo si possano applicare, e il taglio netto del finale e la distinzione chiarissima tra i due punti (spiritualità e carnalità) crea due gruppi corrispondenti, chi vive troppo la propria spiritualità sottraendosi alla vita per scappare dalle difficoltà pur conoscendo e adoperando le regole del Cristo e chi invece queste regole le ignora e vive la vita con completa e assoluta materialità. E chi sta in mezzo? Forse sono loro i veri cristiani. Ma un film così avvolto dal mistero, è molto difficile da decifrare ed estrapolare risposte. E' un mistero, come Dio, come l'anima.
Bunuel non si lascia intimorire da questo mistero, con Nazarin e ora con Simon racconta due uomini con anima e spirito combattuti su quale lasciar dominare sull'altro e traccia la sua prospettiva ma come sempre, la completa assenza di morale lascia tutti liberi di dare la soluzione che più si avvicina alla propria idea di religione, anima, Dio e quant'altro, pur riconoscendo l'importanza di trovarsi nell'eterno dubbio e in quel margine di incertezza nella sceltra tra anima e corpo. Vita come tentazione, come peccato, ma pur sempre vita. Ma bisogna essere abbastanza forti da sopravvivere, questo forse è l'insegnamento di Gesù, fin troppo abusato, ignorato, travisato. Bunuel in qualche modo, cerca di fare un po' di ordine pensando ad un Cristianesimo che va al di là della Chiesa.