giovedì 25 febbraio 2010

Au Hasard Balthazar (1966)

Un film di Robert Bresson. Con Anne Wiazemsky, Walter Green, François Lafarge, Jean-Claude Guilbert Drammatico, b/n durata 90 min. - Francia, Svezia 1966.

Lo sguardo oggettivo e puro dell'asino Balthazar scruta ma senza giudicare il mondo che lo circonda, fatto da uomini viziosi e malvagi. Un'opera pessimista che insieme a Mouchette è quella più minimalista della filmografia di Bresson, e si sente in modo pesnante, il senso e la concezione metafisica del Male (concezione che trovarà il suo massimo ne Il Diavolo Probabilmente). Le emozioni espresse dai protagonisti sono ridotte all'osso, la narrazione scarna, ci si trova davanti a così poco materiale che tutto inevitabilmente si prospetta in una dimensione immateriale, universale. Le azioni dei personaggi non sono spiegate, esse provocano semplicemente una coercizione, una serie di regole malsane a cui inconsciamente tutti sono tenuti a seguire. E' solo l'asino Balthazar che riesce lucidamente a capire quello che lo circonda, è l'unico che riesce a dare un senso alle azioni che su di lui vengono compiute e che compie. Balthazar è la parte razionale dell'animo umano soffocato dalla sua natura che egli stesso produce col suo agire; vive in un mondo senza Dio ma prega per sostenere la parvenza di non esser rimasto solo, ed ecco che le preghiere sembrano solo cantilene insulse e i passi letti della Bibbia solo vuote parole; ama per autoconvincersi di vivere in una rete di attive intereazioni, ma l'amore non si rivela in nient'altro se non in un mero e passivo istinto sessuale. Senza valori, senza una morale condivisa che riesca tenere unita la società, ognuno agisce per il proprio interesse, i buoni sono schiacciati sotto il peso dell'arroganza individualista, i buoni rappresentati dal ciuco Balthazar, che non ha altro sollievo che cercare la pace nella morte. Non c'è speranza, non c'è nessun retroscena psicologico, solo la ribalta della vita, e la certezza che la morte pone fine a tutto, e almeno nella fine non c'è ne' bene e ne' male.

Da Morire (1995)

Cast: Nicole Kidman, Matt Dillon, Joaquin Phoenix, Casey Affleck, Illeana Douglas, Alison Folland, Dan Hedaya, Wayne Knight, Kurtwood Smith, Holland Taylor Regia: Gus Van sant Sceneggiatura: Buck Henry Usa 1995

A Little Hope nel New Hampshire, la vivace Suzanne Stone ha deciso di uscire dal grigiore della fredda provincia e lo vuol fare tramite la televisione, nel cui potere crede ciecamente. Sposato Larry Maretto, figlio di un ristoratore locale, già nel viaggio di nozze in Florida rivela, accettando le avance di un produttore televisivo, la sua assenza di scrupoli morali. Autentica satira sul mondo statunitense, della sua televisione, del suo maniacale attaccamento all'immagine alla perfezione. Suzanne Stone è la personificazione del futile e della stupidità. E' una ragazza appartenente alla società media americana, vive nella tipica cittadina di provincia dove tutto nasce, vive e muore in un'atmosfera perbenista, perfettamente falsa, quasi irreale e tremendamente noiosa. Nella sua vita, tutto, sembra perfetto, eppure nella sua mente c'è qualcosa di distorto. La sua caparbietà è al limite del morboso e del disturbato. Decisa nei suoi progetti, ha sempre saputo quello che voleva dalla vita, fin da bambina e nessuno sarebbe stato mai in grado di fermarla: ne la sua famiglia, ne la sua città, ne suo marito, ne la sua situazaione di bambola sottosviluppata. Niente ha impedito a Suzanne di progettare il suo futuro aspirando al meglio. Profondamente sicura di se, al limite del ridicolo, non accetta un no come risposta, la parola fallimento non fa parte del suo vocabolario, ne' nel suo matrimonio, ne' sopratutto nel suo lavoro. Non ha nessun scrupolo, è disposta ad usare tutte le sua carte: astuzia, cattiveria, appeal, tenacia, e, per ultimo, l'omicidio. Una figura insolita dentro un piccola cittadina nel cuore degli States, ma questo film è l'esempio di come la televisione, con la sua forza manipolatrice, possa arrivare dappertutto. Un potere notevolissimo, ma anche terrificante. Gus Van Sant, in maniera subdula e sorniona ci mostra l'esasperazione di un sentimento che è presente nella società americana, che serpeggia inconsapevolmente nelle case di ignari spettatori domestici intrappolati da questa forza d'intrattenimento. Un film graffiante, a tratti scioccante, per la malvagità (o pazzia) di Suzanne, tipica oca giuliva, vestita con eccessivi tajeur color pasetllo, con unghie perfettamente curate, con capelli perfettamente laccati rincitrullita da un mondo fittizzio, lei che ha vittimizzato quasi tutti per il suo sogno, è rimasta inconsapevolmente vittima a sua volta. Suzanne Stone è magistralmente interpretato da una Nicole Kidman, che abbandona il ruolo di fragile e sensibile donna tormentata, ci regala un personaggio esaltato e sciocannte.

mercoledì 24 febbraio 2010

Rachel Sta Per Sposarsi (2008)

Di Giuseppe Paternò Raddusa

Un film di Jonathan Demme. Con Anne Hathaway, Rosemarie DeWitt, Mather Zickel, Bill Irwin, Anna Deavere Smith, Debra Winger, Jerome Le Page, Beau Sia, Dorian Missick, Kyrah Julian, Carol Jean Lewis, Herreast Harrison. Titolo originale Rachel Getting Married. Drammatico, durata 114 min. - USA 2008. - Sony Pictures

Rachel sta per sposarsi di Jonathan Demme (autore di quel solidissimo film che è 'Il silenzio degli innocenti') è un omaggio all'intrusione della macchina da presa nella vita di tutti i giorni; a beneficiarne è una famiglia disastratissima e violentemente scissa, che possiede uno scheletro dell'armadio di quelli il cui colore non ingiallisce col tempo. In "Rachel Getting Married" non c'è nulla di costrutio: la macchina a mano incide il dolore nei volti dei protagonisti in maniera cruda, realista; si impiccia della loro esistenza in maniera morbosa entrando in una stanza e uscendo da un'altra. Si tratta di un capolavoro di verità e sapienza cinematografica, in cui realtà e sviluppi metacinematografici si mescolano a(ma)bilmente. L'opera prende vita distaccandosi dal precedente modo di intendere il cinema di Demme, e segue una metodologia che ricorda più quella di grandissimi autori del passato, come Ingmar Bergman, e che soprattutto ribadisce l'importanza del dialogo e dei tratti somatici dei personaggi appartenenti ad un Godard, piuttosto che a John Cassavetes. Tutto in funzione del dramma personale e intrinsecamente di Kym, la modella tossicomane che torna in famiglia dopo dieci anni di riabilitazione durante le prove di matrimonio di sua sorella Rachel, a mettere a dura prova gli equilibri precari ma faticosamente sudati all'interno di una tiepida borghesia provinciale americana. Rachel sta per sposarsi è meraviglioso, che riesce a librare in volo verso la fine toccando vette di alto cinema, in cui si capisce che la totale compenetrazione tra unità di tempo e spazio è definitivamente annullata e allo stesso tempo sancita indissolubilmente, uno spazio così immerso nella realtà di una famiglia da diventare quasi filmino amatoriale. Le dolorose dinamiche tra i vari componenti si scontrano e si incontrano, sotto gli occhi impietosi -tra gli altri- delle telecamere appartenenti agli ospiti della cerimonia, fino a culminare in un inevitabile logorio che odora di liberazione, grazie ad una danza sfrenata sotto impulsi indiani che pervaderà queste anime offese. Il male, sotto forma di dolore, viene declinato da Demme spalmandolo sui suoi personaggi, in maniera sublime e paterna: dall'accomodante padre i cui occhi non vogliono vedere più sofferenze (Bill Irwin), alla sorella inacidita dall'esperienza ma che in fondo vuole solo essere felice (Rosemarie De Witt), ad u na madre che semplicemente sta in silenzio (gran ritorno di Debra Winger). Per finire con lei, Kym. Il perno di tutto, la ragion d'essere di questo film: una drogata dal cuore non proprio d'oro, ma quanto meno d'argento. Una giovane donna che non riesce nemmeno ad espiare le sue colpe con l'aiuto di Dio, un personaggio ricco di sfumature e delicate contraddizioni che Jonathan Demme filma con religioso rispetto, e che Anne Hathaway interpreta in maniera perfetta, titanica, riempiendola di dignità e autocritica, facendo della macchina da presa una fedele complice, e ipotecando la prova migliore della sua giovane carriera.

Vita di O-Haru, donna galante (1952)

Un film di Kenji Mizoguchi. Con Kinuyo Tanaka, Ichiro Sugai, Toshiro Mifune Titolo originale Saikaku Ichidai Onna. Drammatico, b/n durata 135 (148) min. - Giappone 1952.

La vita di O-Haru è una concezione nata per difetto dall'universo maschile. In aperta polemica con l'egemonia dell'uomo, Mizoguchi conferisce alla figura di O-Haru tutte le caratteristiche che l'uomo ha creato socialmente e culturalemente per identificare la donna. E' come se l'uomo per comprendere se stesso creasse una relazione di dominio e possedimento della donna escludendola da ogni forma di dialogo o interazione diretta. La donna si esplica con la figura maschile e con il suo operato, azioni che non sono intese da O-Haru se non come fatti provocati dal destino che l'ha estraniata da questo processo di comprensione dalla logica maschilista e sessista non riesce a ribellarsi e a liberarsi da questa condizione di sottomissione. O-Haru, e con lei la figura della donna, è considerata come elemento naturale dell'uomo, un oggetto, che pur non capendo la sua posizione si affida alla sua emotività, al suo dolore, a questa alienazione per comprendere se stessa e la sua vita. Pur non riuscendo a proiettare se stessa nella sua società, accetta se stessa nella sua solitudine. Mizoguchi con la sua consueta eleganza conferisce un aurea di misticità alla figura di O-haru, idealizzandola, e in qualche modo rendendola autonoma nella sua caratterizzazione ma non per le sue differenze in quanto donna (qualcosa di opposto all'uomo quindi) ma per ciò che riguarda la sua sfera emotiva, la sua capacità di instaurare una intimità che non sia un rapporto di potere e di convenienza. O-haru in qualche modo si trasforma nello squallore che subisce diventanto sprezzante e sempre più nauseata da ciò che la circonda, e subisce il suo essere donna (quindi la sua diversità) in una società dominata dall'uomo, ma con la semplicità e la schiettezza di aggrapparsi ad ogni relazione affettiva potenzialmente realizzabile, pur rimanendo sempre alienata. Il suo disgusto si trasforma prima in tristezza, poi in orrore, poi in rabbia e poi in rassegnazione. Mizoguchi traccia una linea in cui segna dei punti. sono gli stati d'animo di Oharu, in una amplificazione sempre più forte ed esasperante di ciò che sente e sopratutto di ciò che vive in una realtà che riesce solo ad accusarla e insultarla ma mai a comprenderla; una realtà che si fa sempre più sporca sempre meno capace di perdonare e di dare un senso alle sue azioni, esattamente come O-Haru che alla fine si ritroverà per sempre sola con il bagaglio pesantissimo e opprimente della sua sofferenza.

Nine (2009)

Un film di Rob Marshall. Con Daniel Day-Lewis, Penelope Cruz, Marion Cotillard, Nicole Kidman, Judi Dench, Sophia Loren, Kate Hudson, Stacy Ferguson, durata 110 min. - USA, Italia 2009. - 01 Distribution

E si, gli americans ci vedevano così: belli, ricchi, affascinanti, passionali, di classe, addirittura rivoluzionari. Certo che, come siamo cambiati in questi 40 anni.Ma evidentemente quell'immagine di grandi registi, divine star, Alfa Romeno decappotabili che sfrecciano per i fori imperiali è ancora troppo viva. Nine è per l'appunto questo, un'immagine. Non è certo un remake di 8 e 1/2 e non cerca neanche di esserlo, nessun regista sano di mente potrebbe mai farlo, sarebbe impossibile quanto per Guido scrivere la sua prima pagina di copione.Ma sarebbe riduttivo considerare Nine solo per questo, in realtà è qualcosa di molto più profondo. E' prima di tutto la storia di un genio, di cosa ha bisogno per andare avanti. Amore? Passione? Fantasia? Bellezza? Certo, ma sopratutto: umiltà. Una cosa che Guido imparerà col tempo e con fatica, quando vedrà prospettarsi davanti a lui una solitudine non solo artistica. Imparerà che il genio si trova sopratutto nelle cose semplici, in un volto, in una canzone, in una ciocca di capelli, in un vicolo. E dietro la storia di un genio, la storia dell'uomo che non sa distinguere quale è la sua casa e quale è il suo lavoro, non sa distinguire la realtà dalla finzione, e forse troppo presa da quest'ultima non si accorge che la gente intorno a lui, che compone il suo mondo, in realtà è molto diversa da come lui stesso si è impegnato di vederla. Luisa non è poi così arrendevole, Claudia non è poi così perfetta, Carla non è poi così sciocca, Mamma non è poi così lontana...Guido dovrà, attraverso i suoi ricordi, la sua fantasia, il suo estro, ritrovare quell'euilibrio e quella autenticità dove le azioni hanno sempre le loro conseguenze, e sarenno proprio le azioni di coloro che Guido vedeva come immobili e impassibili a ricondurlo in una nuova vita. Quando finalmente ciò accade vediamo Guido, con il passato alle sue spalle che lo guarda, lo osserva, lo guida, lo protegge, e poi il presente, l'amore della sua vita, Luisa, sua moglie, che entra da una porta ed è pronta a seguirlo ancora una volta in un nuovo viaggio. Guido prende in braccio al sua vita e con lei tutto l'amore per essa, per le sue donne. Saranno proprio loro, le sue donne a far continuare in lui quel sogno che non è cominciato con la parola "azione" e non si concludrà quando le luci si riaccenderanno. E' un sogno che parte da lontano e che andrà anche oltre. Questo è il cinema: sognare senza porsi dei limiti, ricondandosi però che è la vita di tutti giorni quella materia prima di cui i sogni si nutrono e i primi hanno bisongno dell'altra, come un figlio di sua mamma, come un regista della sua musa, come una moglie di suo marito. Come un genio della sua arte, come un sognatore del suo sogno.Ma andando oltre al livello emotivo non si può dire che tecnicamente sia perfetto, la regia è stata molto superficiale relegando quasi al caso la riuscita di alcune scene, c'è molta ridondanza, il sovrapporsi dell'immaginazione di Guido con la realtà è forse un po' troppo poco spontanea.Daniel Day-Lewis riesce a ritrarre bene il personaggio di Guido. Forse molti si aspettavano un Guido alla Marcello, sommesso e silenzioso, ma sarebbe stato un errore. Questo Guido è diverso perchè è diversa la storia, il significato. Questo ripetuto accostamento ad 8 e 1/2 è legittimo ma chi conosce bene il film di Fellini dovrebbe vedere le dovute ed evidenti differenze.La migliore è comunque Marion Cotillard, intensa, malinconica, sofferta, riesce ad esprimere con uno sguardo tutto il dolore di moglie che ha sacrificato tutta se stessa per suo marito. Anche la Cruz è brava, simpatica e divertente all'inizio dolorosa poi, fa nascere sentimenti di simpatia e di compassione. E solo Nicole Kidman poteva interpretare Claudia, diva ambigua e incompresa, regina dello schermo stanca di essere considerata una dea, stanca del suo piedistallo: lei non è quella Claudia che si vede nei manifesti ma è una Claudia meno perfetta e più donna, è un grande dolore accorgersi che Guido quella donna non la conoscerà mai; è comunque un personaggio poco sviluppato, quasi solo accennato. Un peccato, poteva nascere un grande ruolo. Sofia Loren, bè non fa granchè, ma quando entra in scena il senso nostalgico appena velato per l'intero film esplode terribilmente. Impossibile non pensare almeno per un istante a "come eravamo grandi, e come siamo piccoli ora", sopratutto quando nella scena successiva c'è Martina Stella. Kate Hudson e Fergie fanno il loro lavoro, ma niente di che, anche se Be Italian è forse la canzone che rimane più impressa.La Dench è l'elemento comico del film, l'ago della bilancia; straordinaria, potrebbe stare immobile ed essere grande lo stesso.Un musical che non ha niente da invidiare ad altri ultrimi lavori come The Producer o Dream Girls, che sono NETTAMENTE inferiori a questo. Marshall ha anche evitato l'effetto Chicago 2, anche se ci è andato parecchio vicino molte volte. Infatti sembra un po' spaurito, all'inizio tentenna a trovar la sua strada ma che poi arriva man mano che i personaggi si svelano. Un film che si basa quindi sulla prova dei suoi attori e su quell'immagine di una Italia fatta di cineprese, studi cinematografici, lustrini; perfetta almeno sulle pizze della pellicola.

Antichrist (2009)

Un film di Lars von Trier. Con Willem Dafoe, Charlotte Gainsbourg Horror, durata 100 min. - Danimarca, Germania, Francia, Italia, Svezia, Polonia 2009. - Lucky Red

E' sempre difficile poter scrivere qualcosa quando ci si trova davanti un autore come Von Trier. Ed è ancora più difficile quando un autore del genere realizza opere come questo Antichirst.
Cercare di dare una chiave razionale a questo film vuol dire non averlo visto con trasporto, cercare di avere un giudizio lucido (che sia positivo o negativo) vuol dire non averlo assimilato a dovere. Si perchè Antichirst si apprezza molto di più se preso nel suo senso di irrisolutezza e ambiguità, che non suona come una giustificazione ad alcune mancanze come sintetizzerebbe qualcuno, ma è esattamente la sua natura, che pur scomoda e fastidiosa non può essere messa da parte per soddisfare i nostri capricci di chi guarda.
Antichirst è più film fatto per Von Trier, per combattere i suoi demoni, la sua depressione, il suo mal di vivere. Ci offre uno specchio con cui guardare la sua anima e involontariamente guardare la nostra, perchè in fondo, l'Anticristo non nient'altro che in tutti noi: le nostre paure, i nostri desideri sopiti e la nostra natura inespressa.
L'Anticristo non è la donna, neanche la natura e forse non è neanche Von Trier. Forse non è neanche la razionalità, bensì l'irrazionalità. La freddezza dell'irrazionalità è la freddezza del film che esplora facendoci paura cosa è il dolore: un'essenza del tutto illogica e quindi impossibile da capire, affrontare, superare con la ragione. Ed ecco che qui si compie l'unico scontro visibile del film: quello fra uomo e donna. La donna, il suo coraggio di capire che non c'è limite al dolore, che non c'è un fine ma solo un inizio e nel suo freddo e lucido viaggio analitico di due psicologie, Von Trier regala alla figura femminile una forza inaudita (impossibile per questo accusarlo di misoginia) di fare scelte scomode e di capire sopratutto che la natura umana, la vita in generale è un senso spietato di caos e disordine. E la donna si scontra con l'uomo, ritratto invece come debole, che cerca di dare un'etichetta a tutto e di dare uno spazio e una dimensione a quello che invece non può incatenare e decifrare: la sua sfera emotiva. Nessuno dei due si sente veramente il colpa della morte del figlio fino a quando hanno per la prima volta un rapporto sessuale, se prima la colpa era una dimensione per decifrare il dolore, quindi poco sentito e reale, ora invece ha un sapore nuovo di frustrazione e di tragedia, una dimensione scomoda esattamente come le scene di sesso e violenza. Violenza visiva che non ha altro scopo se non di dare un impatto più forte e impressionante alla vicenda, ma non c'è da sbagliarsi: il film non è né fiscio né visivo, bensì intellettuale, mentale, astratto. Ricco di metafore, di riferimenti. Significati anche religiosi, storici: lo scontro tra bene e male è sostituto dallo scontro tra uomo e donna, il primo ancora inconsapevole della sua natura intento solo a ristabile un ordine fittizio da lui stesso creato, e la donna invece che riconosce la colpa e il dolore e lo elabora totalmente nella dimensione più adeguata: la pazzia. La donna si attacca di più al dolore e alla dimensione esasperata di esso, e così a tutte le sue conseguenze . Il fatto che il figlio sia morto proprio nell'istante in cui lei provava piacere la esaspera; come madre sentiva tutti i sentimenti del figlio in parallelo, come in simbiosi, ma proprio in quell'istante i sentimenti erano contrapposti drammaticamente. Ed è qui che arriva la dura consapevolezza di aver perso il proprio figlio, non solo fisicamente ma anche e sopratutto emotivamente e spiritualmente. Ma la donna è artefice di se stessa, è padrona della sua emotività e del suo corpo, capace di capire, interiorizzare e poi annientare il dolore; al contrario dell'uomo che così attaccato alla materialità ha un senso di se molto lontano e distaccato. Anche se alla fine della lotta l'uomo sembra trionfare in realtà è la donna a vincere: essa vivrà nella Natura, quella Natura stessa irrazionale e selvaggia come lei, usata dall'uomo per trovare pace e serenità e proprio qui punitrice di una inutile e falsa redenzione.
Antichirst è un film non “bello”, ma è un prodotto affascinante della mente di un genio (non c'è nessuna vergogna nell'ammetterlo) e forse proprio per questo non c'è risposta alcuna a questo film, tutto quello che è stato scritto è forse tutto sbagliato, tutto è appeso un filo e completamente modificabile. Questo è il bello, quello di avere la sensazione che ciò che esattamente sta capitando nel film sta capitando anche a chi assiste, è una collaborazione, uno scambio di attività.

La Cinese

Un film di Jean-Luc Godard. Con Jean-Pierre Léaud, Anne Wiazemsky, Michel Samenisko, Lex De Bruijn Titolo originale La Chinoise. Drammatico, durata 90 min. - Francia 1967.
La Cinese è un ironico esperimento sulla vacuità politica e di come le parole spesso siano inefficienti per esplicarla. Capita alcune volte che gli esperimenti poi si rivelino degli indicatori profetici di alcuni cambiamenti (da alcuni considerati prevedebili da altri ovvi, da altri ancora improvvisi) che si verificano nel corso del tempo. La Cinese è uno di quei casi in cui la cinematografia diventa una visione, previsione e strumento sociologico dei mutamenti sociali. Godard era (ed è) un osservatore che captava e raccoglieva su più dimensioni il disagio della classe borghese e l'incapacità del potere politico e dei suoi dettami di capire questo disagio e di rielaborarlo. La Cinese è in tutta chierazza uno dei preamboli che hanno portato al 68 studentesco, a quel rivoluzionario ma non tanto improvviso 68. Forse Godard non si aspettava che il 68 sarebbe arrivato così presto, e forse è per questo motivo che usa un finto minimalismo alla Bresson, (anche un po' facendogli il verso), riassumendolo e racchiundedolo in un appartamento che è anche una gabbia, elegante e raffinata tutte le dinamiche della classe borghese francese di metà anni 60. Non c'è un minimalismo estremo: il vuoto ideologico espresso da idee vaghe, confuse e didascaliche di una gioventù borghese ancora troppo legata alla sua realtà sociale, ha uno spessore emotivo molto importante. Godard ha dato al vuoto una dimensione volutamente emotiva, che non arriva indipendentemente dalla successione degli avvenimenti, ma è appositamente studiata e riuscita. Le parole della politica sono suoni che si disperdono nell'aria se non supportati da azioni pratiche, ma se le parole alla base sono innocue, contorte e nulle, la praticità stessa si trasforma in un tentativo finale pacchiano e patetico, triste e grottesco. I giovani borghesi di Godard sono neutri soldatini fulminati da un'ideale ma che non ha fatto nascere in loro nessuna idea concreta. Ed ecco la differenza tra ideale ed idea: con il primo non ci costruisci il mondo, né lo cambi, serve solo a far nascere delle idee, ma se queste ultime non nascono, si arriva solo alla morte dell'ideale, alla morte dello scopo e del cambiamento. E a più di 40 anni da quel 68, sarebbe curioso fare una riflessione su che cosa è davvero cambiato, quel idee sono state davvero utili e quali no, e sarebbe ancora più curioso vedere se quelle idee sono state tanto forti da sopravvivere realmente e in modo intatto nel tempo. Il minimalismo, o finto tale, di Godard non è ingombrante ma è divertente e amaro, il non-attore per eccellenza Jean Pierre Leaud l'ha capito subito, e spicca, e fa da guida agli altri attori (notare che Veronique è Anne Wiazemsky) in una esilarante impersonalità ed essenzialità in una cornice da semi-documentario con frequenti riferimenti a Brecht, Lumiere, Méliès che sembrano sconnessi e disordianti ma che proprio nella dimensione confusionale trovano la loro forma.

martedì 23 febbraio 2010

Introduzione

Spesso non ci si rende conto di quanto il silenzio in alcuni casi sia più importante di mille parole. Ed è per questo che partendo dal titolo di un film di Ingmar Bergman, che nella sua semplice bellezza esprime in sintesi quello che per me rappresenta il Cinema, ho deciso di iniziare questa avventura. Un mondo, quello del Cinema, scoperto quasi per caso ma che ormai è diventato parte fondamentale della mia vita. Il Cinema insegna che ancor prima di saper parlare bisogna saper ascoltare, in silenzio, e poi saper vedere, sempre in silenzio. Perchè dalla semplicità del silenzio possono nascere i migliori pensieri e i migliori sentimenti.
Ascoltare e vedere, mondi diversi e nuovi: il Cinema insegna a non chiudersi in un riccio ma a conoscere e capire anche le cose che ci sembrano più distanti perchè proprio da esse si impara sempre qualcosa in più su noi stessi: parti della nostra personalità e dei nostri sentimenti che per paura o per ignoranza di possederli, abbiamo sempre tenuto in disparte. Con l'umiltà e la semplicità del silenzio mentre si guarda un film apriamo la nostra mente e il nostro cuore a sensazioni nuove che non fanno altro che arricchire il nostro spirito e la nostra mente.
Il silenzio ci aiuta a non avere paura di pensare e il Cinema è il mezzo, e l'arte, con cui, nel silenzio di una sala cinematografica o della nostra stanza, ci apriamo al mondo e alle sue bellezze perfettamente imperfette.

Mi auguro condividerete in questo spazio le vostre opinioni, nel pieno rispetto degli altri, di chi vi legge e di chi vi vuole capire; spero condividerete con me questa passione viscerale per il Cinema. E soprattuto spero possiate trovare proprio qui un habitat sereno e piacevole nel quale possiate trovarvi a vostro agio e senza remore dare ampio sfogo ai vostri sentimenti e alle vostre emozioni.

Grazie per la gentile attenzione e per la vostra visita.