martedì 10 agosto 2010

Random Thoughts # 6

Mean Streets (1973)
Scorsese affila le armi per quella che sarà da li a poco una delle più belle filmografia del cinema americano e non solo. Un film solido e sicuro che affronta tanti drammi, interiori e sociali. La crisi della religiosità, la crisi della propria identità personale ed etnica. La voglia di cambiare si scontra con la realtà dei fatti che assomigliano a catene indistruttibili che rendeono impossibile ogni movimento. L'abitudine e la rassegnazione ad essa è un cancro che uccide lentamente. Straordinari gli attori.

L'Armata Brancaleone (1966)
Un film che invecchia bene, come il vino buono. C'è molto più del puro divertimento, è una comicità polemica, attenta e tagliente. Una irrenefrenabile cascata di tagliente sarcasmo che ritrae l'italiano medio sempre uguale nelle sue abitudini e nella sua famigerata ma ormai indistinguibile "arte dell'arrangiarsi". Un titolo che è una leggenda. L'Armata Brancaleone come un modo di vita e una linea di pensiero. Indimenticabile, un film che ha fatto storia.

Sfida Infernale (1946)
Ford comincia ad esplorare la filosofia dalla "lontananza" da uno scopo, dalla propria terra, dalla propria famiglia.
Una lontananza sopperita momentaneamemte da altri fini che non riescono comunque a coprire il vuoto della nostalgia delle occasioni perse e dei volti mai più rivisti. L'azione è pura poesia, i personaggi hanno una integrità e dignitià che solo uno come Ford poteva conferire senza scadere nella falsità, e sono accompagnati da un'aurea di misticismo in un'ambiente lirico e romantico, ma anche così materiale. E poi, che bel nome che è Clementine.

Cane Randagio (1949)
Solidissimo noir diretto con astuzia da Kurosawa. Più che una storia di uomini è più una storia di una città, Tokyo. La ricerca della pistola ha un senso tutto metaforico chiaro se raccolto nell'interessa del film, un po' meno chiaro se si cerca nei dettagli della narrazione. E' appunto nel complesso che Cane Randagio va preso, la ricerca di una metropoli come Tokyo, i suoi sobborghi e bassifondi di trovare un'identità a cavallo tra la tradizione e l'innovazione.

La Donna Fantasma (1944)
Una delle punte del cinema noir anni 40. Siodmak riprone con successo l'atmosfera sporca di The Killers regalando una delle perle del cinema del genere. Colpisce per la sua astuzia nel giocare con la sceneggiatura con l'intreccio. Seppure i personaggi sembrano un po' stereotipati hanno tridimensionalità e animo.

Australia (2008)

[Australia, USA/Australia, 2008, Avventura, durata 155'] Regia di Baz Luhrmann Con Hugh Jackman, Nicole Kidman, David Wenham, Bryan Brown, Bruce Spence, Jack Thompson, David Gulpilil, Ben Mendelsohn, Jacek Koman, Bill Hunter

Potete dire qualsiasi cosa: che è troppo lungo, troppo melenso, troppo di qua, troppo di la, troppo di tutto. Balle. E' un film di Baz Luhrmann, questo dovrebbe bastare. Ed è per questo che va preso: o lo si ama o lo si odia, non esiste la via di mezzo. Ancora una volta Luhrmann riprende lo schema classico, il genere classico e lo trasforma, lo fa suo, lo modifica e ci fa quel che vuole. E se forse in USa l'hanno stroncato così tanto, è perchè non è andata giù il fatto che il genere americano per eccellenza sia stato "adagiato" alle esigenze di una storia australianissima, ma che con un pò di impegno si trasforma in una storia universale. O forse perchè gli yankee si sono riconosciuti nel ruolo dei cattivi bianchi che ammazzano e stuprano aborigeni come loro hanno fatto coi pelle rosse? Forse. Ma Australia non ha bisogno di troppo impegno, è una storia semplice, una storia già raccontata ma come è raccontata è qualcosa di maestoso. Non c'è una bellezza intellettuale, ma se tutti smettessero i panni del critico snob con il Corriere sotto il braccio, si apprezzerebbe molto di più la bellezza semplice di questo kolossal. Come tutti gli altri film di Luhrmann la storia non ha granchè importanza, ma sono le scelte dei protagonisti, le loro storie, i loro sentimenti che colpiscono, che sono veri e sinceri. C'è chi lo chiamerà polpettone, e ci può stare: perchè i cattivi sono veri cattivi, i buoni sono davvero buoni, e la storia è così come viene raccontata. Due meriti a Luhrmann: descrivere con così tanta passione i costumi, le usanze e (purtroppo) la realtà degli aborigeni è stato il compito più difficile ma anche quello più sentito; cogliere la bellezza sublime di una terra selvaggia e innocente come l'Australia gli è riuscito benissimo. Australia è un viaggio, è un paese; ma è anche Sarah Ashley, è il Mandriano, è Nullah e sono tutti i protagonisti del film. Australia è un kolossal, è un film epico e va preso così, per quello che è: un film sui sentimenti, come tutti gli altri di Luhrmann. Nè più, nè meno. Australia è la storia di un gruppo di persone, è la storia di una famiglia, è la storia di una casa, è la storia di un paese, la storia di una terra: "la tua terra, la nostra terra".

Il Dubbio (2008)

[Doubt, USA, 2008, Drammatico, durata 143'] Regia di John Patrick Shanley Con Meryl Streep, Philip Seymour Hoffman, Amy Adams, Viola Davis, Lloyd Clay Brown, Joseph Foster, Bridget Megan Clark, Lydia Jordan, Paulie Litt, Matthew Marvin

Il Dubbio è con sorpresa, un film astutissimo, subdolo ed enigmatico. E non poteva essere altrimenti visto il titolo. Il Dubbio insinua il sospetto, mostra la felicità morbosa di insinuarlo, un serpente che striscia con maligna ambuguità, ma che alla fine mostra anche il pentimento, la terrificante sensazione di essersi allontanati dalla verità, per un capriccio, o per arroganza, o semplicemente per la stessa voglia di verità a tutti i costi. E' un film che gioca sulla sceneggiatura, dalle tinte ambigue e incomprensibili, che si basa sulle parole non dette, sulle cose non fatte, dalla verità appena sfiorata, sulle vicende raccontate a metà. E' sicuramente impressionante il ruolo degli attori, tutti bravissimi e capacissimi di non sforare nell'esagerazione. Un film dallo sfondo sociale, una critica ferocissima alla Chiesa (e forse, troppa carne sul fuoco, tutto appena sfiorato ed intuito, ma il film fortunatamente non si voleva basare su questo), ma è tutto incentrato sulla capacià del dubbio di cambiare in modo irreversibile la vite delle persone, volendo o non volendo. La scena finale è di una profondità che raramente si vedono in film di questo genere, sopratutto negli ultimi anni (e la Streep, c'è poco da fare, questa 15a nomination se l'è meritata tutta). Per quasi tutto il tempo il film rimane in un limbo di straziante indecisione e di dolorosa dubbiosità disturbando e infastidendo, accompagnato da una fotografia dalle tinte freddissime e da una struttura (eccesivamente) teatrale. Ma alla fine si offre con troppa facilità una soluazione e forse questo è il suo difetto maggiore. Sarebbe stato bello non dare nessuna risposta e neanche farla intuire. Sarebbe stato bellissimo rimanere indecisi e cullarci, appunto, nel dubbio.

lunedì 9 agosto 2010

Magnolia (1999)

Il passato è una terra straniera. Pioggia di rospi: una calamità, una liberazione, un orrore, un miracolo. Un film sulle metafore, sui simboli, sui significati di cosa è il passato, di come influisce il nostro presente e di come ci mette alla prova per poter organizzare il nostro futuro al meglio. Il presente diventa passato troppo in fretta e il futuro è così vicino da sembrare inesistente. E allora come fare? Far pace col proprio passato non metterà le cose apposto, semplicemente donerà a tutti la parvenza di poter vivere quell'istante tra il presente e futuro e tra presente e passato con più armonia. Lo sanno bene i nove petali di una magnolia, le nove storie di Magnolia collegate da un filo sottilissimo e piccolissimo proprio a simboleggiare quanto sia labile e difficile distinguere il confine tra i tre tempi di una vita. Elegante, raffinato, forse un po' tendente all'autocompiacimento, ma un opera forte, un pungo in faccia, e un film di 9 vite che P.T.A racconta dal dentro per poi arrivare a conclusioni universali. Dal piccolo per arrivare al grande, 9 vite comuni che si trasformano in verità assolute. P.T.A. è troppo intelligente per scadere in moralismi, non c'è morale poichè nel dolore e nel rammarico c'è solo la disperazione, c'è solo la volontà di sembrare migliori e di rendere la propria vita migliore, però con la continua angoscia che il passato si fa sempre più grande e il futuro sempre più piccolo.

Random Thoughts # 5

In Questa Nostra Vita (1942)
Drammone targato Warner Bros che sfrutta senza infamia e senza lode lo star power di due signore come Bette Davis e la de Havilland. Un film sopratutto legato alla forza interpretativa della Davis e alla sua grazia "sgraziata", sa cosa fare e come dev'essere fatto, la sua spavalda sicurezza si percepisce e non è un male. Ma il film non è profondo, fatica a reggere il filo, e Huston alla sua seconda regia sembra quasi intimorito dalla potenza della Davis che anche se lasciata in tutta libertà riesce comunque ad essere precisa e mirata nell'esporre le sue emozioni. Per questo motivo, copre, purtroppo, la delicatezza di una De Havvilland ancora sotto effetto "Via Col Vento", ma che avrebbe meritato più attenzione per sviluppare un personaggio potenzialmente interessante.

Volto Di Donna (1941)
Sul volto di Joan Crawford si potrebbero scrivere fiumi di parole. Ma è questo film di Cukor che ci consente di comprendere la sua importanza, la sua bellezza struggente, la sua potenza nel poter ritrarre con durezza ma anche con dolce femminilità, il dolore della "donna". In questo caso la donna è Anna, incattività dalla società, con quella sua cicatrice che rappresenta il risultato di una società arida e indifferente al sensibile bisogno di comprensione da parte della donna, sempre vittima dell'ignoranza umana, che la vede come un pesante fascio di sentimenti ed emozioni difficile da capire e da sopportare. Joan Crawford guidata dalla mano sicura e comprensiva di Cukor (che anche cambiando registro narrativo, con tinte più drammatiche, riesce a rimanere ancora meravigliosamente sensibile e delicato), nell'irrequietudine del suo spirito, nell'irregolarità del suo volto, racconta l'Odissea di una donna con la morte nell'animo e negli occhi, ma che ritroverà la via della salvezza nella semplice potenza dell'amore e della vita stessa.

Vertigine (1944)
Non ci sono altri aggettivi per descrivere Vertigine se non erotico. Grande noir del periodo d'oro hollywoodiano, dark, nero nel senso più completo del termine. Il titolo italiano, più di quello americano, descrive il sentimento portante del film. Una vertigine dal sapore sensuale ma anche terribilmente drammatico. La tensione sale fino a livelli insostenibili del finale. Gene Tierney da mozzare il fiato, stupemda.


La Ragazza Di Campagna
Dramma strappalacrime e sentimentale che ha reso Grace Kelly una star, procurandole un meritato Oscar. Straordinaria, emozionante, bellissima. Un film che vale la pena ricordare se non altro per la bellezza delle interpretazioni. Anche Crosby in una insolita ma efficacissima aurea negativa e drammatica regala una prova convincente e intensa: riesce a dare un tocco di classe anche ad un personaggio patetico e malinconico come Frank Elgin, una prova non facile superata brillanetemente. Bravo anche William Holden ma la parte del bello e fascionoso forse cominciava a stancarlo.

sabato 7 agosto 2010

Ordet- La Parola (1954)

Un film di Carl Theodor Dreyer. Con Henrik Malberg, Emil Hass, Birgitte Federspiel, Ove Rud, Ejner Federspiel, Gerda Nielsen, Hanne Agesen, Kirsten Andreasen, Sylvia Eckhausen, Cay Kristiansen, Preben Lerdorff Rye, Ann Elisabeth Rud, Susanne Rud, Henry Skjær, Edith TraneTitolo originale . Drammatico, b/n durata 124 min. - Danimarca 1954.

Morten, il patriarca della famiglia Borgen, da sempre solido nella sua fede, vive un momento di crisi profonda nel suo rapporto con Dio a causa dell'ateismo del primo figlio Mikkel, la pazzia del secondo genito Johannes (studente delle teorie di Kierkegaard e che ora si crede il nuovo Messia) e il terzo genito Anders, che vorrebbe chiedere la mano ad una ragazza figlia di un sostenitore della confessione a lui avversa. L'unica a portare un po' di serenità nella famiglia è Inger, moglie di Mikkel, madre di due bambine ed incinta di un maschietto.

Ordet sintetizza l'opinione che Dreyer ha sulla religione; o meglio come gli uomini vedono la religione. Perchè per Dreyer la religione è in sostanza l'atteggiamento con cui l'uomo esprime la sua fede.
Se il regista danese ci aveva già abituato al mistico e alla ricerca del contatto con Dio (La Passion de Jeanne D'arc su tutto), questa volta gioca forte e mette in discussione tutti i dettami e i dogmi che la religione cristiana ha mandato avanti per più di due mila anni e porva a riportare ad una dimensione di semplicità e immediatezza quel rapporto frastagliato che lega Dio e gli uomini scomodando il miracolo dei miracoli: la resurrezione.
Dio si trova nelle cose più semplici e nella semplicità dell'uomo di saper chiedere e rivolgersi a lui. E' la lezione che Johannes, figlio di Morten ritenuto pazzo, infligge a tutta la famiglia troppo occupata dai sentimenti terreni per non riconoscere la grazia che Dio concede ogni giorno.
La cecità dell'uomo di volere sempre di più distoglie l'attenzione dalle cose essenziali ma straordinarie della vita. Il Dio di Dreyer non è necessariamente cristiano, è chiaramente un simbolo di purezza e di una coscienza libera da pregiudizi, esattamente come quella di Johannes o come quella della figlia maggiore di Mikkel e Inger, gli unici a sapersi rivolgere a Dio.
L'austerità delle ambientazioni, l'indeterminatezza dello spazio e del luogo conferisce all'opera un aspetto più solenne che si porta avanti fino ad un finale molto emotivo (quasi insolito per Dreyer abituato ad un rigore stroardinario anche nei sentimenti) in cui la sacralità e la materialità si fondono, dove l'amore divino e quello terreno si uniscono. Il miracolo non è la resurrezione ma la possibilità di ritrovare se stessi attraverso la candidezza dei gesti, e sopratutto vivere in pace con gli altri. La vita è preziosa ma anche troppo fragile per poterla sprecare nella complessità delle macchinazioni della mente umana. Lo spirito come il cuore sono due entità molto più semplici di quanto si immagini e devono essere la base di una vita serena e capace di risconoscere la bellezza delle cose che ci sono state donate.

Fuga Dalla Scuola Media (1996)


Un film di Todd Solondz. Con Christina Brucato, Eric Mabius, Heather Matarazzo Titolo originale Welcome to the Dollhouse. Drammatico, durata 87 min. - USA 1996.


Il regista Todd Solondz a metà anni 90 si fa notare prepotentemente con questo piccolo gioiello di cattiveria e acrimonia. Nel mondo quasi fatato (il titolo originale "Welcome to Dollhouse rende meglio l'idea) e perfetto della provincia americana si perpetua sulle spalle della piccola Dawn Wiener un sistema di torture psicologiche che farebbe paura al più accanito dei serial killer. Lei goffa e bruttina è in perenne competizione con la sorellina più piccola (sulla quale ha vaghe e isolate fantasie omicidie), aggraziata e simile ad una Barbie; i compagni di scuola la odiano ed è l'oggetto di scherzi di bulletti e reginette di bellezza; i genitori la ignorano completamente, ma ancor peggio nei pochi istanti in cui si accorgono della sua presenza si accaniscono su di lei scambiando il suo atteggiamento da ribelle come capricci e non come un disperato tentativo per farsi notare.
Nemmeno la cottarella per l'amico liceale del fratello maggiore riuscirà a darle un po' di sostegno.
Troverà un po' di comprensione solo nel bulletto della scuola, anche lui maltrattato da un sistema che non riesce a comprenderlo, ignorato dai genitori e stracarico di rabbia repressa che infligge sotto forma di minacce sessuali su Dawn che in realtà non sembra tanto disprezzare, perchè se non altro, c'è almeno qualcuno che si occupa di lei.
Un film che non lascia tanto all'immaginazione ed è direttissimo nella sua crudeltà. Diversi momenti di violenza (fisica ma sopratutto psicologica) che si scatenano su Dawn e che non riesce a respingere, un muro di incomprensione e indifferenza la separa da un mondo che lei vede dall'altra parte della staccionata e che non riesce toccare. Le sue fantasie, tipiche di una bambina di 11 anni, si infrangono con la dura realtà alla quale non è mai stata preparata. Un mondo di adulti indaffarati e distanti che crescono figli incattiviti e abbruttiti dalla loro indifferenza e noncuranza. La critica di Solondz è palese e molto semplice: Dawn è l'elemento che incrina il fragile equilibrio della tipica famiglia americana dalle vacanze al lago, dalla TV via cavo, dalla carta da parati color pesca e berlina nel garage, abbellita solo dalle inutili cose materiali con le quali si circonda ma completamente priva di quell'amore e pazienza che rende un casuale aggregato di persone una vera famiglia.
Senza happy-end come è giusto che sia, Dawn rimane da sola circondata da indifferenza e con la difficoltà di dover crescere senza una guida, e accerchiata da androidi tutti uguali che agiscono in modo uguale, sarà solo lei nella sua diversità ad essere quella mina pericolosa che vaga per la piccola provincia del New Jersey, pronta ad esplodere.