La Cinese è un ironico esperimento sulla vacuità politica e di come le parole spesso siano inefficienti per esplicarla. Capita alcune volte che gli esperimenti poi si rivelino degli indicatori profetici di alcuni cambiamenti (da alcuni considerati prevedebili da altri ovvi, da altri ancora improvvisi) che si verificano nel corso del tempo. La Cinese è uno di quei casi in cui la cinematografia diventa una visione, previsione e strumento sociologico dei mutamenti sociali. Godard era (ed è) un osservatore che captava e raccoglieva su più dimensioni il disagio della classe borghese e l'incapacità del potere politico e dei suoi dettami di capire questo disagio e di rielaborarlo. La Cinese è in tutta chierazza uno dei preamboli che hanno portato al 68 studentesco, a quel rivoluzionario ma non tanto improvviso 68. Forse Godard non si aspettava che il 68 sarebbe arrivato così presto, e forse è per questo motivo che usa un finto minimalismo alla Bresson, (anche un po' facendogli il verso), riassumendolo e racchiundedolo in un appartamento che è anche una gabbia, elegante e raffinata tutte le dinamiche della classe borghese francese di metà anni 60. Non c'è un minimalismo estremo: il vuoto ideologico espresso da idee vaghe, confuse e didascaliche di una gioventù borghese ancora troppo legata alla sua realtà sociale, ha uno spessore emotivo molto importante. Godard ha dato al vuoto una dimensione volutamente emotiva, che non arriva indipendentemente dalla successione degli avvenimenti, ma è appositamente studiata e riuscita. Le parole della politica sono suoni che si disperdono nell'aria se non supportati da azioni pratiche, ma se le parole alla base sono innocue, contorte e nulle, la praticità stessa si trasforma in un tentativo finale pacchiano e patetico, triste e grottesco. I giovani borghesi di Godard sono neutri soldatini fulminati da un'ideale ma che non ha fatto nascere in loro nessuna idea concreta. Ed ecco la differenza tra ideale ed idea: con il primo non ci costruisci il mondo, né lo cambi, serve solo a far nascere delle idee, ma se queste ultime non nascono, si arriva solo alla morte dell'ideale, alla morte dello scopo e del cambiamento. E a più di 40 anni da quel 68, sarebbe curioso fare una riflessione su che cosa è davvero cambiato, quel idee sono state davvero utili e quali no, e sarebbe ancora più curioso vedere se quelle idee sono state tanto forti da sopravvivere realmente e in modo intatto nel tempo. Il minimalismo, o finto tale, di Godard non è ingombrante ma è divertente e amaro, il non-attore per eccellenza Jean Pierre Leaud l'ha capito subito, e spicca, e fa da guida agli altri attori (notare che Veronique è Anne Wiazemsky) in una esilarante impersonalità ed essenzialità in una cornice da semi-documentario con frequenti riferimenti a Brecht, Lumiere, Méliès che sembrano sconnessi e disordianti ma che proprio nella dimensione confusionale trovano la loro forma.
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