sabato 7 agosto 2010

Ordet- La Parola (1954)

Un film di Carl Theodor Dreyer. Con Henrik Malberg, Emil Hass, Birgitte Federspiel, Ove Rud, Ejner Federspiel, Gerda Nielsen, Hanne Agesen, Kirsten Andreasen, Sylvia Eckhausen, Cay Kristiansen, Preben Lerdorff Rye, Ann Elisabeth Rud, Susanne Rud, Henry Skjær, Edith TraneTitolo originale . Drammatico, b/n durata 124 min. - Danimarca 1954.

Morten, il patriarca della famiglia Borgen, da sempre solido nella sua fede, vive un momento di crisi profonda nel suo rapporto con Dio a causa dell'ateismo del primo figlio Mikkel, la pazzia del secondo genito Johannes (studente delle teorie di Kierkegaard e che ora si crede il nuovo Messia) e il terzo genito Anders, che vorrebbe chiedere la mano ad una ragazza figlia di un sostenitore della confessione a lui avversa. L'unica a portare un po' di serenità nella famiglia è Inger, moglie di Mikkel, madre di due bambine ed incinta di un maschietto.

Ordet sintetizza l'opinione che Dreyer ha sulla religione; o meglio come gli uomini vedono la religione. Perchè per Dreyer la religione è in sostanza l'atteggiamento con cui l'uomo esprime la sua fede.
Se il regista danese ci aveva già abituato al mistico e alla ricerca del contatto con Dio (La Passion de Jeanne D'arc su tutto), questa volta gioca forte e mette in discussione tutti i dettami e i dogmi che la religione cristiana ha mandato avanti per più di due mila anni e porva a riportare ad una dimensione di semplicità e immediatezza quel rapporto frastagliato che lega Dio e gli uomini scomodando il miracolo dei miracoli: la resurrezione.
Dio si trova nelle cose più semplici e nella semplicità dell'uomo di saper chiedere e rivolgersi a lui. E' la lezione che Johannes, figlio di Morten ritenuto pazzo, infligge a tutta la famiglia troppo occupata dai sentimenti terreni per non riconoscere la grazia che Dio concede ogni giorno.
La cecità dell'uomo di volere sempre di più distoglie l'attenzione dalle cose essenziali ma straordinarie della vita. Il Dio di Dreyer non è necessariamente cristiano, è chiaramente un simbolo di purezza e di una coscienza libera da pregiudizi, esattamente come quella di Johannes o come quella della figlia maggiore di Mikkel e Inger, gli unici a sapersi rivolgere a Dio.
L'austerità delle ambientazioni, l'indeterminatezza dello spazio e del luogo conferisce all'opera un aspetto più solenne che si porta avanti fino ad un finale molto emotivo (quasi insolito per Dreyer abituato ad un rigore stroardinario anche nei sentimenti) in cui la sacralità e la materialità si fondono, dove l'amore divino e quello terreno si uniscono. Il miracolo non è la resurrezione ma la possibilità di ritrovare se stessi attraverso la candidezza dei gesti, e sopratutto vivere in pace con gli altri. La vita è preziosa ma anche troppo fragile per poterla sprecare nella complessità delle macchinazioni della mente umana. Lo spirito come il cuore sono due entità molto più semplici di quanto si immagini e devono essere la base di una vita serena e capace di risconoscere la bellezza delle cose che ci sono state donate.

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