giovedì 3 marzo 2011

Il Rito (1969)

Un film di Ingmar Bergman. Con Ingrid Thulin, Gunnar Björnstrand, Erik Hell, Andres Ek, Ingmar Bergman Titolo originale Riten. Drammatico, b/n durata 72 min. - Svezia 1967-69.
Tre attori d'avanguardia – un uomo, la moglie, il suo amante – finiscono davanti a un giudice-censore per uno spettacolo accusato di oscenità.

Perfetto. Chirurgicamente, scientificamente, clinicamente perfetto. Sembra una partita a carte, uno schema tecnico di una partita di calcio, poker, doppie, uno schema matematico preciso fino all'inimmaginabile.
Una partita giocata sul surreale ma che è al tempo stesso ipereale. Che cosa è “Il Rito”? E' l'anti-morale, è l'anti-giustizia, non la negazione di entrambe ma il rifiuto assoluto di esse. Cosa è la giustizia terrena in fondo, è un meccanismo creato dall'uomo per giudicarsi, fermarsi, regolarsi, ma è un sistema di regole imperfetto, troppo labile, fragile esposto a qualsiasi manipolazione.
Quattro personaggi, ognuno in relazione con l'altro con un totale di dodici relazioni diverse suddivise in nove scene, tutte diverse, tutte dai toni, modi, presupposti, intenzioni, scopi diversi. Una costruzione perfetta per una critica alla morale praticamente perfetta.
Ma ancora di più è affascinante l'esposizione di queste dodici relazioni, come si intrecciano e che cosa producono: lontano da clichè, dogmi, spauracchi, le interazioni umane sono sdradicate dalla quotidianeità e inserite in un contesto straordinario ed è straordinario vedere come rimangono comunque esattamente le stesse e capire come rimangono le stesse pur in situazioni diverse.
Questo rende impossibile il gesto del giudicare, questo rende l'assoluto inutile e spalanca le porte al relativo. Bergman sa che la vita è una scala di grigi (fotografia affidata al fedelissimo Sven Nykvist) e su questo principio costruisce un castello di sfumature in cui l'inapplicabilità della giustizia si materializza in un rito pagano simbolo della materialità uamana. Materia e idea convivono in una comunione negata troppo spesso dalla convenzioni comuni, Bergman distrugge questo muro e lascia che l'idea diventi materia. L'osceno non è altro che il corpo umano, la libidine, l'espressione della propria sessualità un desiderio represso dai preconcetti e che quando si libera, diventa appunto, "osceno". Bergman da una dimensione a tutto questo in cinque soli minuti e con pochi elementi: una maschera, un fallo, una bacinella di vino. Questo è il rito: tre elementi che prendono forma a seconda di quello che si vuole vedere, anche la propria disfatta e morte.
Uno dei suoi film più affascinanti, più complessi, più ermetici. Il punto più oscuro della sua carriera, più spietata anche e più feroce.

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