lunedì 21 marzo 2011

Partita A Quattro (1933)

Un film di Ernst Lubitsch. Con Fredric March, Gary Cooper, Miriam Hopkins, Edward Everett Horton. Franklin Pangborn, Isabel JewellTitolo originale Design for Living. Commedia, b/n durata 90 min. - USA 1933.
Due amici sono amati dalla stessa ragazza, donna di mondo, ma trovano un accordo e mettono su casa insieme, dove, però, la convivenza è soltanto platonica

“Ernest Lubitsch credeva che fosse meglio ridere in un palazzo che piangere in un retrobottega”.

Si sa che c'è sempre qualcuno che dice le cose molto meglio di quanto non faremmo noi e così non ci si può che affidare alle parole di un certo Francois Truffaut che con massima capacità riassuntiva esprime un po' tutto il concetto del cinema di Lubitsch.
Padre dello screw ball assieme a Cukor e Stevens, Lubitsch è il perfetto esempio di quel Cinema europeo emigrato in America che mantiene intatte le caratteristiche basilari pur adattandosi alle esigenze di un pubblico forse più frivolo ma che non si lascia sfuggire qualche messaggio interessante lanciato da questo Cinema sofisticato e giocoso.

Sotto il coperchio di commedia leggera, Lubitsch sa elaborare schemi narrativi molto complessi e sa usare la trama (magari per qualcuno banale) per raccontare qualcosa di molto diverso. Ebbene, “Partita A Tre”, diretto nel 1933 è assieme a Vogliamo Vivere il suo capolavoro di sintesi, riassunto, elaborazione di quel concetto di eleganza, raffinatezza ma anche e sopratutto di profondità di idee.

“Partita A Quattro” è uno di quei film dove si fa fatica a trovare difetti e se esistessero sarebbero irrilevanti perchè quello che sta in alto, quello che coordina il tutto riesce a coprire le imperfezioni irradiando di luce l'intero film: è il brio, l'allegria il vero motore della storia molto inopportuna per i tempi, scomoda, quasi scandalosa (il film è stato girato prima del Codice Hayes), ma come viene raccontata è talmente convincente e talmente sincera che alla fine tutti diventano supporters di un modello di vita abbastanza distante per i canoni dell'epoca e anche dei nostri.
Ma la spensieratezza non si deve confondere con superficialità, al contrario, le relazioni che si creano e si instaurano tra i quattro protagonisti sono molto complesse e mettono in campo una serie di clichè e taboo che via via si disintegrano, si ricostruiscono, si rafforzano e poi si disintegrano di nuovo. E' una specie di cerchio che simboleggia quanto l'uomo pur tentato dal cambiamento è in egual misura a ritornare sui suoi passi. Ma quanto costa questo ripensamento? La risposta di Lubitsch è abbastanza chiara: ci si gioca la felicità. Si appunto è una partita, un gioco ma la posta in palio sembra piuttosto alta e allora si torna alla condizione forse meno comoda ma certamente più consona a quello che si vuole essere.
Che dire poi sul personaggio di Gilda? Definitivamente si concretizza il modello Dietrich-Garbo, ma c'è un tocco in più: la donna non è solo femme fatale silenziosa e ammaliante ma è dotata di un cervello attivissimo, lingua tagliente e un forte spirito di intraprendenza. Gilda è il motore della partita, è giocatrice ed arbitro

Un film liberatorio, libero, divertente ma che lancia una freccia nelle coscienze degli spettatori e dei censori di allora. Per fortuna il Codice Hayes non fece in tempo a fermarlo e oggi “Partita A Quattro” è un esempio di come temi quali la libertà, anche al Cinema, non hanno bisogno di grandi elaborazioni pur che siano trattati con attenzione senza banalizzare. Si può, anzi si deve ridere. Meglio se in un bel palazzo piuttosto che in un retrobottega.

venerdì 4 marzo 2011

Cigno Nero (2010)

Un film di Darren Aronofsky. Con Natalie Portman, Vincent Cassel, Mila Kunis, Barbara Hershey, Winona Ryder. Titolo originale Black Swan. Thriller, durata 110 min. - USA 2010. - 20th Century Fox
Nina è una ballerina del New York City Ballet che sogna il ruolo della vita e un amore che spezzi l'incantesimo di un'adolescenza mai finita. Incalzata da una madre frustrata, si sottopone a un allenamento estenuante sotto lo sguardo esigente di Thomas Leroy. Coreografo appassionato e deciso a farne una fulgida stella, Leroy le assegna la parte della protagonista nella sua versione rinnovata del “Lago dei cigni”.

Il difetto più grande de Il Cigno Nero forse è l'eccessivo desiderio di "impressionare", ma non naturalmente, ma al contrario come se fosse un obbligo, quasi un diritto dettato dalla storia, dalla narrazione e dal taglio che Aronofosky sceglie di dare al film.E' un'opera ambiziosa e potente che manca il traguardo del capolavoro poichè si perde in un bicchier d'acqua di stereotipazioni e forzature quasi blindate che non trasformano l'idea in azione.Il personaggio di Nina è purtroppo elaborato approssimativamente pur essendo reso affascinante e straordinario da una Natalia Portman praticamente perfetta, da una umanità lacerante a un personaggio altrimenti scritto male.E' comunque un film che parla con astuzia di un tema molto difficile: il doppio, la metamorfosi. Nina potrebbe soffrire di molti disturbi mentali, ma questo non deve interessarci è invece interessante il percorso autodistruttivo che compie attraverso gli stati delle sue allucinazioni che si fanno sempre più forti, più vere, più impressionanti. E' un viaggio negli inferi nella mente, nelle ossessioni e nelle paure. La ricerca assoluta della perfezione artistica che poi porta inevitabilmente alla morte fisica. Viene da chiedersi se ne è valso il sacrificio. Forse Nina pensa di si ed è qui che giace la forza, la bellezza de Il Cigno Nero: l'arte presa come un senso assoluto in cui tutto inizia e finisce, un buco nero, un salto nel vuoto che inevitabilmente destina all'immortalità. Arte è pazzia, Nina è la comunione tra queste due cose. Questo è il punto cruciale del film, fortunatamente sviluppato con attenzione dagli sceneggiatore pur dovendo fare i calcoli con la mano pesante di Aronosfky che pur nella sua precisione è troppo intento a voler impressionare a tutti i costi. Purtroppo anche il "contorno", i personaggi secondari rischiano di essere troppo stereotipati e sopratutto l'ambiguità sessuale di Nina è un tema appena sfiorato che lascia molti dubbi sull'utilità del suo ruolo all'interno della storia.C'è però un personaggio interessante che si ritaglia una piccolissima parte di storia ma ha dentro tutta una vita è quello di Beth Macintyre (Winona Ryder), anche lei simbolo di quell'Arte che prende il potere sull'artista e vince distruggendo senza pietà alcuna.In sintesi, un film affascinante, visivamente potente ma che sarebbe potuto essere molto di più se la cornice attorno al ritratto della straordinaria Nina-Natalie Portman fosse stato più curato

giovedì 3 marzo 2011

Il Rito (1969)

Un film di Ingmar Bergman. Con Ingrid Thulin, Gunnar Björnstrand, Erik Hell, Andres Ek, Ingmar Bergman Titolo originale Riten. Drammatico, b/n durata 72 min. - Svezia 1967-69.
Tre attori d'avanguardia – un uomo, la moglie, il suo amante – finiscono davanti a un giudice-censore per uno spettacolo accusato di oscenità.

Perfetto. Chirurgicamente, scientificamente, clinicamente perfetto. Sembra una partita a carte, uno schema tecnico di una partita di calcio, poker, doppie, uno schema matematico preciso fino all'inimmaginabile.
Una partita giocata sul surreale ma che è al tempo stesso ipereale. Che cosa è “Il Rito”? E' l'anti-morale, è l'anti-giustizia, non la negazione di entrambe ma il rifiuto assoluto di esse. Cosa è la giustizia terrena in fondo, è un meccanismo creato dall'uomo per giudicarsi, fermarsi, regolarsi, ma è un sistema di regole imperfetto, troppo labile, fragile esposto a qualsiasi manipolazione.
Quattro personaggi, ognuno in relazione con l'altro con un totale di dodici relazioni diverse suddivise in nove scene, tutte diverse, tutte dai toni, modi, presupposti, intenzioni, scopi diversi. Una costruzione perfetta per una critica alla morale praticamente perfetta.
Ma ancora di più è affascinante l'esposizione di queste dodici relazioni, come si intrecciano e che cosa producono: lontano da clichè, dogmi, spauracchi, le interazioni umane sono sdradicate dalla quotidianeità e inserite in un contesto straordinario ed è straordinario vedere come rimangono comunque esattamente le stesse e capire come rimangono le stesse pur in situazioni diverse.
Questo rende impossibile il gesto del giudicare, questo rende l'assoluto inutile e spalanca le porte al relativo. Bergman sa che la vita è una scala di grigi (fotografia affidata al fedelissimo Sven Nykvist) e su questo principio costruisce un castello di sfumature in cui l'inapplicabilità della giustizia si materializza in un rito pagano simbolo della materialità uamana. Materia e idea convivono in una comunione negata troppo spesso dalla convenzioni comuni, Bergman distrugge questo muro e lascia che l'idea diventi materia. L'osceno non è altro che il corpo umano, la libidine, l'espressione della propria sessualità un desiderio represso dai preconcetti e che quando si libera, diventa appunto, "osceno". Bergman da una dimensione a tutto questo in cinque soli minuti e con pochi elementi: una maschera, un fallo, una bacinella di vino. Questo è il rito: tre elementi che prendono forma a seconda di quello che si vuole vedere, anche la propria disfatta e morte.
Uno dei suoi film più affascinanti, più complessi, più ermetici. Il punto più oscuro della sua carriera, più spietata anche e più feroce.

mercoledì 2 marzo 2011

Il Gigante (1956)

Giant, USA, 1956, Drammatico, durata 198'Regia di George StevensCon Rock Hudson, Elizabeth Taylor, James Dean, Carroll Baker

Bick Benedict (Hudson), che discende da una famiglia di facoltosi allevatori texani, sposa Leslie (Taylor), una bella ragazza del Maryland. Jett (Dean), un bracciante che è innamorato senza speranza di Leslie, eredita un appezzamento di terreno che si scopre essere ricco di petrolio. Jordy si iscrive alla facoltà di medicina, poi sposa Juana, una messicana. Judy frequenta la scuola di economia rurale. Con la seconda guerra mondiale, Jett si arricchisce enormemente...

Il Gigante è un pezzo di storia americana, non solo cinematograficamente parlando ma anche e sopratutto socialmente. Il Gigante è lo stato del Texas, simbolo dell'espansionismo americano, dell'innocenza, della libertà. Tutto è gigantesco, anche le occasioni. Il film è gigante nei tempi, nella regia, nelle interpretazioni. Gigante è lo spirito con cui si racconta la storia della famiglia Benedict che è il tipico microuniverso americano che si divide tra nuove pulsioni e vecchi ordini europei. E' proprio mastodontico, toglie il fiato, è il simbolo chiaro di cosa l'America può essere, non solo terra selvaggia ma anche terra di fortuna, di crescita, di cambiamento.

Un cambiamento veloce che può anche schiacciare, alienare tormentare e qui entra in gioco il tormentato per antonomasia: James Dean. Potrebbe essere anche lui il gigante perchè lui incarna il Texas, incarna l'America ma non tralascia anche la faccia negativa. E' un film epico ma che parte da spunti abbastanza semplici, le dinamiche sono quasi elementari alla loro base ma è la carica sociale che Stevens ci costruisce intorno che lo rende straordinario.

domenica 27 febbraio 2011

Donne In Attesa (1952)


Un film di Ingmar Bergman. Con Carl Ström, Gerd Andersson, Björn Bjelfvenstam, Maj Britt Nilsson, Jarl Kulle, Birger Malmsten, Gunnar Björnstrand, Eva Dahlbeck, Anita Björk, Karl-Arne Holmsten, Aino Taube, Håkan WestergrenTitolo originale Kvinnors Väntan. Commedia, b/n durata 80 min. - Svezia 1952.

Quattro donne si riuniscono in una casa per le vacanze aspettando i loro. Tutte e quattro sposate con quattro figli di una nota famiglia industriale, avranno il tempo di conoscersi meglio e raccontarsi le gioie e i tormenti del matrimonio. Sarà l'occasione per condividere momenti di dolore ma ci sarà spazio anche per qualche pizzico di felicità
“Donne In Attesa” è uno dei primi passi che Bergman muove nell'analisi della vita di coppia che riprendere in più occasioni in un percorso lungo quanto la sua filmografia e che tocca punte altissime come “Scene Da Un Matrimonio”
Il matrimonio come vincolo sociale e affettivo è stato sempre materia di ampia discussione praticamente ovunque è un elemento essenziale per l'uomo quanto lo è l'aria, ed è bellissimo oltre che abbastanza inusuale per quei tempi che il matrimonio venga raccontato, ricordato, analizzato da 4 personaggi femminili un po' intrappolate nell'ipocrisia sociale un po' libere di esprimersi forti del cambiamento culturale in atto. Bergman capta e racchiude in un simposio di parole e racconti il disagio e al tempo stesso la bellezza, la gioia ma anche il dolore di essere una donna nel matrimonio, l'altra metà spesso considerata la seconda in ordine di importanza ma al contrario il fulcro degli impulsi più violenti e la culla delle reazioni e dei sentimenti più forti. Quattro donne che con esperienze diverse affermano la loro presenza in questo mondo e nei loro matrimoni diventando un po' madri dei loro mariti e amiche di loro stesse per le loro pene. Quattro episodi raccontati in modo diverso, con tagli diversi ma visti con gli occhi di un Bergman quasi accondiscendente, impotente davanti alle sue "creature" che diventanto grandi ma comunque onnipresente: è il padre saggio, il nostro silenzioso narratore.
La bellezza unica dell'essere donna risiede nel fatto che è composta da mille facce tutte diverse e l'amore di una donna nasce, cresce ma quasi mai muore, forse è l'istinto materno o forse la dolce e volitiva arrendevolezza di cadere nelle emozioni più pure.
Bergman gioca con gli spazi, con le luci quasi a simboleggiare la frammentaria natura dell'animo femminile e dell'amore che è capace di provare. Le storie cucite addosso alle protagoniste hanno la conformità e la strutture dei loro volti, dei loro pensieri. E' un lavoro registico straordinario e sottile che trova una buona base nell'immensa prova attoriale delle quattro attrici che danno volto a queste donne reali e quasi innalzate ad idoli.
E' un film da guardare con attenzione, con calma e con affetto. E' un film da cullare e da amare con totale disinvoltura.

mercoledì 1 dicembre 2010

Benvenuti, ovvero vietato l'ingresso agli estranei (1964)

Titolo Originale: DOBRO POZHALOVAT, ILI POSTORONNIM VKHOD VOSPRESHCHYON
Regia: Elem Klimov
Interpreti: Viktor Kosykh, Aleksej Smirnov, Evgenij Evstigneev, Arina Aljeinikova, Il'ja Rutberg Durata: h 1.11 Nazionalità: URSS 1964 Genere: commedia
Durante un campo estivo dei "Pionieri sovietici" (organizzazione per fanciulli dai 9 ai 14 anni), un ragazzo vivace viene espulso: invece di tornare a casa e affrontare la nonna, devota ammiratrice di Khrushëv, preferisce nascondersi…


Elem Klimov, prima di arrivare alla proclamazione assoluta del suo amore per il mondo dell'infanzia in “Va' E Vedi” si cimenta qui per la prima volta nel raccontare una storia di bambini rivolta però agli adulti che dovrebbero tornare per un istante ad essere fanciulli. Se non altro almeno per assaporare meglio la bellezza della vita e poterla vivere con più spontaneità.

Già i bambini, bellissimi nella loro semplicità, ancora protetti da dalle brutture del mondo grazie alla loro immaginazione e alla loro naturalezza. I bambini sono coerenti con loro stessi, sono fedeli alla loro natura e non hanno paura di dimostrarlo. Se esiste una sola interferenza quella è l'ottusità degli adulti che credono di dover intervenire nell'educazione solo attraverso atteggiamenti pedagocici coercitivi. E chi meglio dell'educazione sovietica ha fatto di questo un vero e proprio vanto? E allora non è poi così strana la scelta di Klimov di raccontare la storia di una colonia-colleggio che molto probabilmente ha dovuto visitare anche lui durante la sua infanzia.
Lasciarsi andare a risate allegre senza avere una ragione o compiere gesti apparentemente sciocchi potrebbe essere un buon antidoto al male della maturità. I bambini di “Dobro Pozhalovat” potrebbero essere immagini o personaggi dell'infanzia del regista o anche personaggi della nostra infanzia.

Il bello di “Dobro Pozhalovat” è che non c'è ne' propaganda ne' denuncia, solo tanta nostalgia di un mondo fragile ma che resiste proprio grazie a quella genuinità dei gesti e la sconfinata abilità di saper piegare la realtà alla fantasia.
Klimov è innamorato di quel mondo e ne riconosce l'importanza e per fare questo ridiventa bambino egli stesso: gioia e giocosità si cogliono dall'uso quasi allegro che fa della cinepresa ma è quasi impossibile non notare un velo di malinconia e di amarezza. E quindi un mondo chiuso, fatto di segreti legati alla sconfinata e indecifrabile immaginazione blindata in un labirinto di complesse sensazioni e sentimenti che però trovano sfogo in modo straordinario nei modo candidi e diretti dei bambini. Si, un mondo che da il benvenuto a tutti ma che può essere anche molto angusto e se si entra in modo sbagliato sa chiudersi in modo quasi ermetico divenendo incomprensibile.

“Dobro Pozhalovat” si inserisce bene nella trasformazione del cinema Sovietico post-Stalin, che quasi casualmente si fa più divertente e divertito quando racconta certi temi e lascia perdere almeno ufficiosamente tutti quegli intenti propagandistici ormai obsoleti che non fanno presa su nessuno. Un Cinema che diventa più “occidentale” senza perdere i suoi tratti caratteristici. Klimov è un grande esponente del cambiamento ed è curioso poter analizzare la sua evoluzione e come col tempo abbia maturato una visione un po' più introspettiva e profonda del mondo. Molto probabilmente il bambino che c'è in lui è diventato troppo grande o troppo consapevole del male del mondo, ed ecco che si arriva a Florya.

Qualunque sia stato il suo cammino, il Klimov degli inizi è un bambino nel corpo di un adulto (Avventua Di Un Dentista dovrebbe dirci qualche cosa) e il suo film pieno d'amore divertito ricoperto da un velo di nostalgia è come un bellissimo ricordo da tenersi caro. Un ricordo d'infanzia.

lunedì 29 novembre 2010

Addio, Maestro


MARIO MONICELLI, 1915-2010