mercoledì 1 dicembre 2010

Benvenuti, ovvero vietato l'ingresso agli estranei (1964)

Titolo Originale: DOBRO POZHALOVAT, ILI POSTORONNIM VKHOD VOSPRESHCHYON
Regia: Elem Klimov
Interpreti: Viktor Kosykh, Aleksej Smirnov, Evgenij Evstigneev, Arina Aljeinikova, Il'ja Rutberg Durata: h 1.11 Nazionalità: URSS 1964 Genere: commedia
Durante un campo estivo dei "Pionieri sovietici" (organizzazione per fanciulli dai 9 ai 14 anni), un ragazzo vivace viene espulso: invece di tornare a casa e affrontare la nonna, devota ammiratrice di Khrushëv, preferisce nascondersi…


Elem Klimov, prima di arrivare alla proclamazione assoluta del suo amore per il mondo dell'infanzia in “Va' E Vedi” si cimenta qui per la prima volta nel raccontare una storia di bambini rivolta però agli adulti che dovrebbero tornare per un istante ad essere fanciulli. Se non altro almeno per assaporare meglio la bellezza della vita e poterla vivere con più spontaneità.

Già i bambini, bellissimi nella loro semplicità, ancora protetti da dalle brutture del mondo grazie alla loro immaginazione e alla loro naturalezza. I bambini sono coerenti con loro stessi, sono fedeli alla loro natura e non hanno paura di dimostrarlo. Se esiste una sola interferenza quella è l'ottusità degli adulti che credono di dover intervenire nell'educazione solo attraverso atteggiamenti pedagocici coercitivi. E chi meglio dell'educazione sovietica ha fatto di questo un vero e proprio vanto? E allora non è poi così strana la scelta di Klimov di raccontare la storia di una colonia-colleggio che molto probabilmente ha dovuto visitare anche lui durante la sua infanzia.
Lasciarsi andare a risate allegre senza avere una ragione o compiere gesti apparentemente sciocchi potrebbe essere un buon antidoto al male della maturità. I bambini di “Dobro Pozhalovat” potrebbero essere immagini o personaggi dell'infanzia del regista o anche personaggi della nostra infanzia.

Il bello di “Dobro Pozhalovat” è che non c'è ne' propaganda ne' denuncia, solo tanta nostalgia di un mondo fragile ma che resiste proprio grazie a quella genuinità dei gesti e la sconfinata abilità di saper piegare la realtà alla fantasia.
Klimov è innamorato di quel mondo e ne riconosce l'importanza e per fare questo ridiventa bambino egli stesso: gioia e giocosità si cogliono dall'uso quasi allegro che fa della cinepresa ma è quasi impossibile non notare un velo di malinconia e di amarezza. E quindi un mondo chiuso, fatto di segreti legati alla sconfinata e indecifrabile immaginazione blindata in un labirinto di complesse sensazioni e sentimenti che però trovano sfogo in modo straordinario nei modo candidi e diretti dei bambini. Si, un mondo che da il benvenuto a tutti ma che può essere anche molto angusto e se si entra in modo sbagliato sa chiudersi in modo quasi ermetico divenendo incomprensibile.

“Dobro Pozhalovat” si inserisce bene nella trasformazione del cinema Sovietico post-Stalin, che quasi casualmente si fa più divertente e divertito quando racconta certi temi e lascia perdere almeno ufficiosamente tutti quegli intenti propagandistici ormai obsoleti che non fanno presa su nessuno. Un Cinema che diventa più “occidentale” senza perdere i suoi tratti caratteristici. Klimov è un grande esponente del cambiamento ed è curioso poter analizzare la sua evoluzione e come col tempo abbia maturato una visione un po' più introspettiva e profonda del mondo. Molto probabilmente il bambino che c'è in lui è diventato troppo grande o troppo consapevole del male del mondo, ed ecco che si arriva a Florya.

Qualunque sia stato il suo cammino, il Klimov degli inizi è un bambino nel corpo di un adulto (Avventua Di Un Dentista dovrebbe dirci qualche cosa) e il suo film pieno d'amore divertito ricoperto da un velo di nostalgia è come un bellissimo ricordo da tenersi caro. Un ricordo d'infanzia.

lunedì 29 novembre 2010

Addio, Maestro


MARIO MONICELLI, 1915-2010

I Ragazzi Stanno Bene (2010)

I ragazzi stanno bene è un film di Lisa Cholodenko del 2010, con Mia Wasikowska, Julianne Moore, Mark Ruffalo, Josh Hutcherson, Annette Bening, Yaya DaCosta, Rebecca Lawrence, Kunal Sharma, Amy Grabow, Eddie Hassell. Prodotto in USA. Durata: 104 minuti. Distribuito in Italia da Lucky Red.

Due fratelli adolescenti che vivono con le loro madri gay vanno in cerca del loro padre biologico e lo introducono nel nucleo familiare. Il suo arrivo sconvolgerà gli equilibri cambiando per sempre il corso degli eventi

La forza dello stare insieme vince sulle difficoltà di ogni coppia, ma se questa coppia è composta da un duo lesbico emancipato e un po' hippie l'esito sarà sicuramente dei più curiosi e anche divertenti. È l'idea alla base di "The Kid Are All Right" che sicuramente non sarebbe stato lo stesso senza le due prove di forza delle sempreverdi Julianne Moore e Annette Bening. Si, perché alla fine il film di Lisa Cholodenko è un esercizio di regia fondato soprattutto sull'uso degli attori che cercano di evitare la via della banalità.Il tema basterebbe comunque a tenere in piedi anche la più banale delle storie e al di là di tutto il contorno di tradimenti, giardini da curare, padri ritrovati, "The Kid Are All Right" è un degno esempio di cinema indipendente americano con tutti i pro e purtroppo anche con tutti i contro: non serve però farne un elenco né perdere tempo ad analizzare ciò che non va nel film, meglio sarebbe concentrarsi sul messaggio che il racconto riesce a lanciare, anche se solo a metà e con qualche forzatura. Il succo è che le coppie, di ogni forma, colore, tipo ecc, affrontano nel quotidiano una serie infinita di problemi e preoccupazioni: non è perché Nic e Jules sono lesbiche che avranno il triplo dei problemi di una coppia etero, anzi forse è il contrario, la loro (qualche volta pessima) abitudine di mettere sempre tutto in chiaro, di esporre in modo netto i sentimenti, è certamente un modo intelligentissimo per evitare gli angoli bui e oscuri di una situazione non semplice come crescere due figli in un ambito familiare non comune. È un codice che ogni famiglia si crea, il problema non è la quantità dei problemi da affrontare ma come li si affrontano. E che cosa succede se un elemento estraneo (il padre-provetta un po' playboy un po' tonto dei figli della coppia protagonista) si insinua incrinando quell'equilibrio da sempre ritenuto solido? Gli effetti sono disastrosi, lo sarebbero per ogni coppia, anche la più forte e resistente di questo mondo. E allora come reagire? Che cosa fare? Come comportarsi? Il punto è non perdere la strada maestra della solidità della fiducia reciproca, che è anche fatta di sbagli riparati, menzogne poi chiarite, tradimenti perdonati. Insomma, ciò che "The Kid Are All Right" racconta è un modello di famiglia universalizzabile, che ha le stesse caratteristiche di una famiglia comune: e alla fin fine che cosa è davvero comune e cosa non lo è? Le "stranezze" o le inusualità esistono in qualsiasi famiglia e la capacità di crearne una nasce dal bisogno di sentirsi collegati, un bisogno che non ha sesso, età, religione, orientamento sessuale. La famiglia è questo: bisogno di stare insieme e condividere. I problemi diventanto rilevanti una volta trovato il modo di superarli. Nic e Jules ci riescono? Forse si ma non per la straordinarietà della loro relazione ma perché sono disposte a perdonarsi, andare avanti come ogni famiglia degna di questo nome dovrebbe fare.





Pubblicato su Loudvision http://lv11.it/w6br4

sabato 20 novembre 2010

The Social Network (2010)

Un film di David Fincher. Con Jesse Eisenberg, Andrew Garfield, Justin Timberlake, Armie Hammer, Max Minghella.

Mark Zuckerberg, il ragazzo che sarebbe diventato il più giovane miliardario della storia creando il social network più usato al mondo, nel 2004 era uno studente di Harvard brillante ma con poche doti sociali.


In un mondo in cui si ha poco tempo, quello che si dedica all'ascolto del prossimo è ormai prossimo allo zero. "The Social Network", storia romanzata della nascita del sito più popolato del web, racconta prima di tutto una vicenda umana e di come nell'ultima tappa della nostra evoluzione l'uomo abbia trovato un modo per esprimere se stesso attraverso ciò che non si vede. Milioni di persone trovano riparo dalla realtà rifugiandosi in qualche profilo facebook o twitter o myspace e in qualche modo riescono ad essere fedeli a loro stessi mai quanto lo sarebbero nella vita di tutti i giorni.Mark Zuckerberg, geniale studente di Harvard più che un superbo programmatore informatico, è stato ed è tuttore un eccellente osservatore delle dinamiche sociali dei ragazzi della sua età che non troppo difficilmente possono essere applicate al mondo intero.La voglia di comunicare è in effetti un bisogno essenziale dell'essere umano e la voglia di cercarsi e trovarsi è ciò che mantiene in piedi il sistema di relazioni umane.
Facebook, come gli altri servizi di network, è effettivamente questo: un insieme di esigenze che codificate portano a programmi multimediali che facilitano le relazioni e l'espressione di se stessi.Fin dalle prime fasi di lavorazione di "The Social Network", non molti pronosticavano un prodotto di tale importanza, ma era di facile previsione come la materia trattata avrebbe giocato un ruolo fondamentale nella riuscita del film. David Fincher si allontana molto dal modello registico a cui appartiene e sembra anche lui intrappolato in questa "rete" di relazioni che si instaurano tra i protagonisti del film. In effetti "The Social Network" ha il pregio di non raccontare facebook ma di interpretarlo come fenomeno sociale e culturale, svelandone i più segreti e affascinanti elementi e mostrandone anche una faccia ben più temibile: una sorta di "contagio" del bisogno ineffrenabile di contatto mentale umano sincero, anche se distante fisicamente.
Facebook.inc è una società che fattura 1 bilione di dollari l'anno. È il sesto potere dopo il quarto della stampa e il quinto della televisione, è il potere oscuro di manipolare menti e abitudini e di modifcare il corso delle vite di chi ne viene toccato. Al di là di qualsiasi cosa si possa pensarne, Facebook è una rivoluzione di importanza madornale, quasi indescrivibile nei dettagli perché è una rivoluzione anche in atto che non si concluderà molto presto, pochi di noi ne potranno vedere la fine, se mai ci sarà. Ma ciò che rende il film di Fincher un'opera intrigante è l'attenzione riservata al catturamento delle dinamiche sociali dei personaggi che, pensati in una specie di fermo immagine anche se fulmineo, sono facilmente avvicinabili a tutti coloro che sono stati attaccati dalla mania di facebook ma ancora più profondamente dalla modernità.
"The Social Network" è una esplorazione, un viaggio dai caratteri incerti, dai contorni poco chiari ma con la consapevolezza che al di là del desktop c'è qualcuno che ci sta ad ascoltare, che cerca di capirti, in questo mondo dove tutti, andando di fretta, trovano il tempo solo davanti allo schermo di un computer. Molti potrebbero pensarlo come un fenomeno degenerativo ma se 500 milioni di persone hanno aderito a questa filosofia è difficile considerarlo solo un bluff di un geniale ragazzino annoiato dalla vita del college.
Pubblicato su Loudvision.it http://lv11.it/dvxbb

sabato 6 novembre 2010

Rabbit Hole (2010)

Un film di John Cameron Mitchell. Con Nicole Kidman, Aaron Eckhart, Sandra Oh, Dianne Wiest, Jon Tenney, Tammy Blanchard, Giancarlo Esposito, durata 90 min. - USA 2010.

"Rabbit Hole" traccia il confine sottile tra disperazione e speranza, è l'incontro tra la morte e la vita, la comunione tra gioia e tristezza. Non è semplice mettere insieme emozioni e stati d'animo così diversi, ma la regia delicata e fine di John Cameron Mitchell arriva al traguardo e raggiunge tutti gli intenti promessi. Senza intrappolare i sentimenti in compartimenti stagni, Cameron-Mitchell tra le sue mani modella una storia tanto semplice quanto potente di una famiglia distrutta che cerca di ricostruirsi partendo dalle cose semplici quotidiane. Una quotidianeità che per Howie e Becca Corbett costa fatica e dolore, ma che con la volontà di di condividere il loro dolore seppur con tempi e modi differenti troveranno la forza di affrontare."Rabbit Hole" forse inizia al momento della sua conclusione, quel finale aperto che lascia intendere tutto il contrario di tutto, Becca e Howie si buttano nella tana del coniglio sperando di poter raggiungere quella felicità che vorrebbero esistesse in uno dei tanti universi paralleli ai quali Jason, giovane sensibile studente che ha investito loro figlio, crede totalmente perché anche lui fa fronte tutti i giorni una realtà che sembra troppo grande e troppo opprimente."Rabbit Hole" è un inno alla vita esorcizzando la morte, un punto di arrivo che non vuole guardarsi alle spalle, ma forse più della morte di un figlio, "Rabbit Hole" racconta di una perdita di qualcosa che si ha amato tanto e che non tornerà mai più e quel vuoto che quella perdita lascia e il dilemma di come poterlo riempire. Un dolore immenso che non scompare ma che cambia, l'unico problema è capire come e come saperlo affrontare.Un'esisetenza tagliata in due che cerca di ricongiungersi a se stessa con la consapevolezza che il futuro non si potrà mai più progettare ma che sarà da costruire passo dopo passo con un "poi" infinito che non troverà pace ma solo rassegnazione, un peso da portare in tasca che accompagnarà il cammino di una vita.Si soffre, e si ride, si piange e ci si commuove come se tutte le sensazioni toccate dai protagonisti fossero anche nostre, perché tutti hanno dovuto subire in qualche modo una perdita e "Rabbit Hole" non offre una soluzione ma un modo per sopravvivere nel modo meno difficile possibile ma senza promettere falsi rimedi e ipocrite scappatoie.Il vuoto e il peso che ci si porta dentro è quello delle persone che abbiamo amato e che sono andate via per sempre ma più universalmente di tutto ciò che credevamo sarebbe stato eterno e invece è sparito del tutto.John Cameron Mitchell è sentitamente coinvolto e lo fa notare nella delicatezza e nella discrezione di lasciare la storia nel suo naturale evolversi senza forzature inutili e senza banali giochi di drammatizzazione. Non sarà certamente il suo film più sconvolgente, e non è certamente un film innovativo nel suo genere, ma la sensibilità di osservare ma mai in modo invasivo i personaggi e le situazioni rendono la sua regia una buona lezione di ottimo Cinema indie americano che senza fronzoli superflui e senza esagerazioni ritrare con semplicità una famiglia che è intrappolata in un limbo alla quale, pur nelle sue imperfezioni ci si sente quanto mai più vicini. La telecamera scivola con dolcezza sui volti dei protagonisti, rimane sempre coerente alle circostanze e se con "Shortbus" aveva fatto, sotto questo punto di vista, un ottimo lavoro, qui se è possibile supera se stesso, con la differenza che pur nell'essere meno estremo risulta più commossamente legato ma contemporaneamente distaccato in modo lucido da non compromettere il risultato con una eccessivo coinvolgimento.Ma John Cameron Mitchell non ha fatto tutto da solo, il merito va anche all'ottima sceneggiatura di Lindsay-Abair che con astuzia riadatta il suo dramma e le modifiche dovute e necessarie rimagono fedelissime agli intenti iniziali.Il cast, c'è poco da dire, è ottimo. Un team di attori in stato di grazia, a proprio agio con un tema così difficile, cappeggiato da una strepitosa Nicole Kidman che non sbaglia un tono, uno sguardo, un gesto, esplora tutti i livelli possibili e tutta la vasta gamma di emozioni legate al suo personaggio. Vince due volte: come attrice e come produttrice, questo film è all'80% un suo lavoro. Dura ma lacerata, si può addirittura sentire quasi toccare la rabbia e la disperazione silenziosa che si porta dentro, non è mai eccessiva e regala momenti di pura recitazione.Aaron Eckhart la segue, senza nulla da invidiare, riesce ad essere sensibile e determinato allo stesso tempo, con onestà e con convinzione interpreta il dolore di un padre intrappolato nel proprio passato.Miles Teller è una giovane promessa, si sentirà parlare ancora molto di lui si spera perché vedendolo nei panni di Jason, accidentale assassino di Danny, fa venire un groppo in gola. Howie, Becca e Jason, tre anime perse che devono far fronte a una situazione molto più grande di loro ma che dovranno superare insieme senza biasimarsi, senza accusarsi ma condividendo ciò che si portano dentro. Ognuno di loro sopravvive come può ma non possono e non devono trovarsi da soli."Rabbit Hole" insegna anche questo, quanto gli altri siano importanti per poter sopravvivere alla vita stessa, e soprattutto condividere ciò che si ha nel cuore aiuta a rendere "il poi" della vita più facilmente accettabile e più facile da digerire.Un film che colpisce all'anima e al cuore, semplice ma forse per questo molto più potente.Esattamente come la vita.

lunedì 25 ottobre 2010

L'Ultimo Buscadero (1972)

USA, 1972, Commedia, durata 102'] Regia di Sam Peckinpah Con Steve McQueen (I), Robert Preston, Ida Lupino, Ben Johnson

Junior Bonner è figlio di un ex campione di rodeo che ora coltiva il sogno di trasferirsi in Australia in cerca dell'oro. Ma anche la carriera di Junior è in declino.
Come Sam Peckinpah. racconta l'America non lo fa nessuno e mai nessuno ci riuscirà. Maestro della New Hollywood, P. ci regala ancora una volta una storia tutta pregna di quel candore misto disincanto che la rude provincia americana possiede. Desideri, illusioni, sogni infranti, sono loro le componenti di una provincia così innocente e pura ma anche ingenua, affezionata a rodei, pacchiane sfilate che celebrano quel sogno americano mai arrivato. Junior Bonner e suo padre sono quelli che il sogno l'hanno assaporato, ma per troppo poco, e per questo che amareggiati cercano di riprenderlo ma con l'amaro in bocca di chi ha sprecato troppo presto un'occasione.
Difficile ricostruire i cocci di una vita spesa a sprecare quel poco che ha saputo offire e ora è difficile reagire alla sua vendetta che si articola in delusioni, amarezze, sconfitte. Junior e suo padre sono due uomini americani che non credono alle staccionate bianche e alla berlina parcheggiata nel garage, sono uomini che credono al destino metà costruito dall'uomo e metà servito su un piatto di pessima porcellana fin troppo fragile. Questa però è l'america di Sam Peckinpah: l'america delle occasioni mancate, delle camice sgualcite e dei cappelli da cowboy bucati; dai jeans sdrucidi e polvere sui parabrezza di vecchie cadillac. E' un america vera, poco piacevole ma che esiste, e forse per questo ancora più bella.
Un buscadero non è altro che quel sogno americano mancato, un'occasione persa; non è altro che polvere, fango, vento secco e un gigolio dal suono metallico di una macchina arrugginita.
E c'è poco da dire su Steve McQueen, e su quella sua faccia sporca e sciupata di chi ha vissuto e bevuto troppo; occhi stanchi come due fuochi spenti che trascinano due gambe indolenzite ma che si muovono solo per riavere una rivincita. Vincere sulla vita e sull'America. Steve McQueen, Sam Peckinpah, sono loro la vera America, ma questa volta Dio non la benedirà.

giovedì 14 ottobre 2010

Random Thoughts # 7

Ciapaiev (1934)
Nient'altro che un (bel) film di propaganda sovietica, questa volta però l'eroe socialista ha il volto più umano e sensibile, assomiglia quasi ad un Joh Wayne bolscevico, rude e crudo, dalla scorza dura ma dai principi nobili. Un erore quasi romantico. Alla fine la propaganda rimane in secondo piano, e si è colpiti da questa bell'avventura.



L'altro Uomo (Delitto Per Delitto) (1951)
Uno dei film minori di Hitchcock ma non minore nella qualità. Personaggi dal comportamento ambiguo ma delineati nelle loro forme con precisione quasi chirurgica, inquadrature ad effetto (molto bello il prologo). Un po' troppo scontato forse, la suspance non ha secondi fini, c'è meno filosofia ma è la suspance come la intende Hitchcock, e va benissimo così, non c'è bisogno di aggiungere altro.

La Fiammiferaia (1989)
Non c'è recitazione, dialoghi ridotti all'osso, frammenti di una vita soffocata e inesistente resa silenziosa dal chiasso dell'esterno (il rumore assordante della fabbrica e il rumore delle tragedie del mondo). Scene spezzate, azioni impregnate di nichilismo, non c'è speranza, non ci sono scelte autonome, solo scelte derivate dal caso. Un film esasperato ed esasperante. Gelido, ghiccia fino al midollo.


Alla Tredicesima Ora Della Notte (1969)
Un'opera fuori di testa, nel vero senso della parola. Pazzoide, schizzato musical di “auguri per il nuovo anno” pieno di iornia e di giovialità ma che nasconda una velata sensazione di malinconia e di “verso” al cinema americano e una critica a quello sovietico ancora troppo indietro. Un musical dall'impianto moderno senza dubbio ma con elementi peculiari della filmografia sovietica classica (il canto tradizionale popolare non poteva mancare) . I russi hanno fatto pochissimi musical si contanto sulle dita di una mano, ma quando lo fanno si hanno semore buoni risultati e interessanti prodotti.

lunedì 11 ottobre 2010

La Pecora Nera (2010)

Un film di Ascanio Celestini. Con Ascanio Celestini, Giorgio Tirabassi, Maya Sansa, Luisa De Santis, Nicola Rignanese, Barbara Valmorin, Luigi Fedele, Alessia Berardi, Alessandro Marverti, durata 93 min. - Italia 2010. - Bim uscita venerdì 1 ottobre 2010.
Nicola è un trentacinquenne che ha vissuto tutta la vita in manicomi, da bambino quando andava a portare le uova con la nonna, poi da grande come paziente. La sua vita è scandita dal fare la spesa con una suora, dai semplici lavoretti da giardinaio. Finchè incontra Marinella, vecchia compagna di scuola e suo primo amore. Da qui le cose si complicano.

Ascanio Celestini, dopo anni di teatro, si cimenta per la prima volta con un film di finzione (dopo due documentari per la Fandango) e racconta uno degli aspetti più difficili del genere umano: la malattia mentale.Orientativamente ambientato tra gli anni 60 (i favolosi anni 60) e gli anni 2000, La Pecora Nera è un lucido, ma illogico, viaggio nella malattia di Nicola, trentacinquenne con un'infanzia difficile quanto pittoresca popolata da situazioni e personaggi grotteschi. Nicola è il matto che diventa racconto, con la nonna che vende le uova; che mangia i ragni e che va a fare la spes;, che non ha mai fatto la guerra e che ama Marinella. Quanto sarebbe normale una vita del genere senza quella fastidiosa etichetta di "matto"? Celestini ce lo fa capire cambiando matto con santo. I matti del manicomio che è in realtà "un condominio di santi".
Ma chi è Nicola? Celestini ci proprone il ritratto curioso e doloroso di un bambino e di un uomo da guardare con gli occhi da "santo". E questo sguardo è privo di ogni cenno critico, infatti è solo Nicola a poter dare un parere sulla situazione e vendica il suo diritto di esistere e che combatte in solitario la sua piccola battaglia dopo che il mondo, la società lo hanno abbandonato.Celestini è molto abile nel raccontare questo aspetto: i matti, vengono quasi sempre abbandonati, da tutti: società, stato, familiari. Come i santi, come i martiri, lasciati al loro destino di morte (mentale prima che fisico). Nel personaggio di Nicola è racchiuso tutto il malessere della solitiduine tutta la tristezza di sentirsi addosso il peso dell'abbandono, i pazienti del manicomio assumono più le sembianze di animali e di soprammobili di cui nessuno si occupa. Questo è il calvario che i "santi matti" devono sopportare giorno dopo giorno.
Celestini è bravo, costruisce un bel racconto ed è sensibile, mai inopportuno. Ci regala un film con il cuore, ricco di risate amare alla Charlie Chaplin, Basaglia affermò nel 1978 che non è più necessaria la "costrizione" dei manicomi da sostituirsi con istituti mentali, senza rendersi conto che la costrizione della situazione specifica resta sempre e comunque. Celestini offre un modo tenero e malinconico di rendere questa costrizione un po' più leggera e facile da accettare. La legge Basaglia avrebbe dovuto ridare dignità alla condizione del malato mentale in Italia ma c'è da dire che la chiusura effettiva di tutti i manicomi non è mai avvenuta veramente e che soprattutto la condizione del malato mentale non è ancora socialmente accettata e ancora oggi, dopo più di 30 anni dalla legge che avrebbe dovuto riabilitare la figura del "matto" ancora si deve combattere con ostacoli di ogni genere, soprattutto sociali. Nicola capisce quali ostacoli deve superare per vivere e per poter raggiungere il cuore di Marinella (compagna di scuola, unico amore della sua vita), ma come si può superare un ostacolo quando non si conoscono le cause? Nicola è consapovole della sua malattia? Forse non completamente, anche perché è nato e cresciuto in un ambiente malato ed è questo l'unico linguaggio che conosce e l'unica possibilità che gli si è paventata. Allora il Nicola di Ascanio Celestini diventa simbolo di un malessere dovuto al fatto che non sempre i matti sono nati matti e che per questo meriterebbero più cura e attenzione non solo medica. Con un finale che è un pungo in pieno viso, rientra in pieno il messaggio di come sia necessario che nasca un senso di responsabilità etica nell'occuparsi di coloro che entrano nel buio della mente. Tutti dopotutto hanno paura nel buio, allora perché non darsi una mano?

lunedì 4 ottobre 2010

Simon Del Deserto (1965)

Un film di Luis Buñuel. Con Claudio Brook, Enrique Alvarez Felix, Hortensia Santavena Titolo originale Simón del desierto. Fantastico, b/n durata 42 min. - Messico 1965.

Simon, eremita che da 8 anni, 8 mesi e 8 giorni vive su una colonna di pietra in penitenza, povertà e preghiera, rappresenta o meglio dovrebbe, ciò che per la fede è il cristiano perfetto. Ma la perfezione, si sa, appartiene solo a Dio, ed è per questo che Simon, a tutti gli effetti si dimostra un fallimento come uomo e come cristiano. L'uomo che scioccamente crede di potersi avvicinare alla perfezione cristiana scavalcando addirittura la Chiesa (Simon, rifiuta gli ordini sacerdotali), l'organo che per Bunuel senza mistero considera la nemesi della figura di Cristo.
Quando un uomo decide, deliberatamente, di vivere alla lettere i dettami cristiani, pur illuminato da principi cristallini, rimane comunque un essere umano, imperfetto e limitato ma ancor più vulnerabile alle tentazioni terrene. Quello che Gesù non ha mai insegnato è di sottrassi alla vita, ma di vivere adottando i suoi principi. E quando Simon si ritrova in mezzo alla vita, quando davvero vive e sente e percepisce e assorbe le pulsazioni e le vibrazioni delle vita, che cosa fa? Non ci è dato saperlo. Il film per problemi di produzione finisce in modo enigmatico. A chi crede e a chi no, viene dato il privilegio di decidere la sorte di Simon, diventerà peccatore “vivente” o tornerà al suo viaggio spirituale lontano dalla vita che Dio ha dopotutto costruito per gli uomini?
La vita appunto, oppure Satana, oppure l'avvenente donna, la maliziosa studentessa, la procace donna barbuta...Tanti volti, un unico scopo: tentare Simon. Ci riuscirà o fallirà? Non ci è dato saperlo.
Quello che è certo è che Simon Del Deserto è blasfemo tanto quanto è sacro, e sopratutto smonta pezzo per pezzo, tagliuzza chirurgicamente la figura del sacerdote, distrugge la concezione cristiana dello spirito distinto dal corpo, dello spirito superiore al corpo. Uno spirito che non vive con il corpo alla fine è debole e il sacerdozio può essere considerato un rifugio, un modo di evadere dal mondo, una colonna, una torre d'avorio dove ci si può proteggere dalla vita. Demolisce uno dei pilastri portanti della Chiesa terrena.
Dio in fondo, si è fatto uomo, è stato carne, ha vissuto, ha mangiato e bevuto, non dispiaceva la compagnia degli amici, le buone risate, e Bunuel incalza e cavalca la polemica passando dall'estremo Simon all'estremo del XX secolo, epoca di bagordi e lussuria, dove è difficile credere che i valori del Cristianesimo si possano applicare, e il taglio netto del finale e la distinzione chiarissima tra i due punti (spiritualità e carnalità) crea due gruppi corrispondenti, chi vive troppo la propria spiritualità sottraendosi alla vita per scappare dalle difficoltà pur conoscendo e adoperando le regole del Cristo e chi invece queste regole le ignora e vive la vita con completa e assoluta materialità. E chi sta in mezzo? Forse sono loro i veri cristiani. Ma un film così avvolto dal mistero, è molto difficile da decifrare ed estrapolare risposte. E' un mistero, come Dio, come l'anima.
Bunuel non si lascia intimorire da questo mistero, con Nazarin e ora con Simon racconta due uomini con anima e spirito combattuti su quale lasciar dominare sull'altro e traccia la sua prospettiva ma come sempre, la completa assenza di morale lascia tutti liberi di dare la soluzione che più si avvicina alla propria idea di religione, anima, Dio e quant'altro, pur riconoscendo l'importanza di trovarsi nell'eterno dubbio e in quel margine di incertezza nella sceltra tra anima e corpo. Vita come tentazione, come peccato, ma pur sempre vita. Ma bisogna essere abbastanza forti da sopravvivere, questo forse è l'insegnamento di Gesù, fin troppo abusato, ignorato, travisato. Bunuel in qualche modo, cerca di fare un po' di ordine pensando ad un Cristianesimo che va al di là della Chiesa.

domenica 26 settembre 2010

Inception (2010)

Un film di Christopher Nolan. Con Leonardo DiCaprio, Ken Watanabe, Joseph Gordon-Levitt, Marion Cotillard, Ellen Page, Tom Hardy, Cillian Murphy, Tom Berenger, Michael Caine, Lukas Haas, Tohoru Masamune, Claire Geare, Johnathan Geare, Carl Gilliard, Daniel Girondeaud, durata 142 min. - USA, Gran Bretagna 2010. - Warner Bros
Dom Cobb è in grado di inserirsi nei sogni altrui per prelevare i segreti nascosti nel più profondo del subconscio. Viene contattato da Saito, un potentissimo industriale il quale gli chiede di tentare l'operazione opposta. Non deve prelevare pensieri celati ma inserire un'idea che si radichi nella mente di una persona.

Inception è un capolavoro di suggestione, manipolazione, controllo, creazione.E' un viaggio dentro la mente ma ancora prima dentro all'uomo. Un'idea originale di schematizzare (ma non troppo) la menta umana dividendola su più livelli dove certamente l'ultimo è il più affascinante. Nella mente si annidano i nostri più nascosti pensieri, le nostre più remote emozioni, soppresse e dimenticate, i nostri desideri e le nostre speranze, le nostre idee più preziose. E' un lavoro infausto quello di doverli estrapolare, ancora più infausto però doverne creare una. Come si fa a creare un'idea dal niente? Con la manipolazione, ma costa fatica, emotiva, intellettuale e anche fisica. Nolan in effetti ci sta dicendo, nel suo solito modo ambiguo, che un'idea costa fatica, costa pensarla, costa metterla in atto, costa sottrarla. Il mondo delle idee è insomma un mondo che fa così parte di noi che non ci accorgiamo di quanto faticoso sia possederlo, e quanto sia pericoloso che una sola idea sbagliata venga impiantata, può modificare una vita e il corso degli eventi.

Nel mondo delle idee si può manipolare tutto, tempo e spazio, e allora in un mondo così complesso ma anche così fragile e debole l'unico punto di sostegno e di ricongiumento con il reale sono i ricordi della vita vera. I ricordi sono più preziosi delle idee perchè rappresentano la nostra via, la materializzazione di quelle idee, quindi un livello successivo e finale. Che Nolan ci stia dicendo che intrappolarsi nella nostra mente dimenticandosi del reale sia pericoloso? Certamente si, ed è quello che è successo a Dom Cobb, un po' eroe un po' anti-eroe in lotta con i suoi ricordi e con le sue idee, sceglierà alla fine i primi, perchè anche se dolorosi sono veri e sono vivi in lui, sempre. Inception, accusato da molti critici di essere eccessivamente cervellotico, è in realtà molto più semplice di quanto possa sembrare, addirittura meno ostico dei film precedenti di Nolan, è comprensibile solo se si entra nella sua ottica di ambigua rappresentazione del nostro subconscio ideato e raccontato con una gigantesca scatola cinese ma dove l'importante è tenersi saldi nel proprio punto di riferimento per non perdersi, e chi ci riesce si gusterà sicuramente questo capolavoro. E' un film che chiaramente ha bisogno di un grado altissimo di concentrazione e attenzione quasi totale, ma l'esperienza vale l'impegno. Il film più riuscito di Nolan? Molto probabilmentesi si: la sua regia è più solida, ancora più lucida ed è per questo che la sua consueta ambiguità riesce ad essere paradossalmente più comprensibile e conclude quel processo di sperimentazione iniziato con Memento e continuato con Insomnia e The Prestige di come la mente umana sia così sensibilmente esposta alla manipolazione e all'inganno. Sta a significare che nonostante questo grande muro di sensazioni ed emozioni, dietro ci sia un fragile castello di carta molto facile da abbattere.

Il nostro intelletto è un "non luogo", un posto sospeso tra vita e immaginazione dove perdersi è troppo facile, e Nolan ci insegna come rimanere ancorati alla vita, como nonostante sia più comodo e più sicuro apparentemente sognare, se alla fine non si vive ciò che realmente accade, le nostre azioni pur essendo frutti dei nostri pensieri, non hanno alcun senso, la nostra vita non ha alcun senso. Don Cobb lotta per l'affermazione di questo principio e la forza dei ricordi della sua vita fa finire la storia nel giusto modo, per alcuni forse accomodante, ma è un finale logico per un film che non si perde mai nonostante sia molto difficile perdersi dentro, un po' come la nostra mente che segue leggi sconosciute e che quindi rimane in un equilbrio che per noi può essere paradossalmente destabilizzante. Un film forte, sicuro, preciso, come Nolan sa essere.

giovedì 23 settembre 2010

L'Australiano (The Shout) 1978

Un film di Jerzy Skolimowski. Con Susannah York, John Hurt, Tim Curry, Alan Bates, Robert StephensTitolo originale The Shout. Drammatico, durata 87 min. - Gran Bretagna 1978.


Ricoverato in un istituto psichiatrico britannico, un uomo pretende di essere capace di uccidere con un grido, come sanno fare gli aborigeni d'Australia.


Un urlo può essere inteso come molte cose; inteso come diverse dimostrazioni di innumerevoli stati d'animo: urlo di gioia, di piacere, di dolore, di entusiasmo. Ma quello che Charles Crossley fa con il suo urlo “terrifico” va al di là di ogni immaginazione. Dopo aver trascorso 18 anni insieme agli aborigeni australiani, Crossely diventa da uomo vecchio in una terra nuova (l'Australia) a uomo nuovo in una terra vecchia, che cambia drammaticamente la vita dei coniugi Fielding portandoli davanti a sensazioni nuove seppur terribili. Il fuoco spento della loro vita si riaccende grazie al mistero che Crossley si porta dietro, mistero figlio di 18 anni di pratiche magiche, usanze indigene più potenti del valore quasi scientifico che i Fielding depongono in un “Dio” onnipotente. Più potenti non perchè più vecchie, ma perchè tutt'ora messe in pratica con fervore fisico e spirituale dai caratteri sconvolgenti, caratteri che hanno segnato la vita di Crossely in modo indelebile.
Per questo The Shout (urlo appunto) è un film mistico ma che cerca di analizzare il rapporto tra Dio e l'uomo attraverso le conseguenze che questo rapporto fa scaturire. Di “divino” c'è molto poco, è un film passionale, molto fisico, ma in effetti Dio può manifestarsi attraverso i corpi e le emozioni completamente terrene degli uomini che nonostante la voglia di elevarsi sopra la materia, si rivolgono a Dio perchè interferisca sulle loro esigenze materiali. Per questo Crossley si interroga sul valore dell'anima, lui che l'anima l'ha vista manifestarsi sotto innumerevoli forme terrene, non capisce giustamente perchè e in che modo dovrebbe essere liberata quando sa bene che lo è già. E non è un caso che questa libertà dell'anima è percepita, capita e accolta da un "idiota", uno straniero incompreso che convinzioni sociali occidentali rinchiudono nella definizione di "pazzo". E' il valore della purezza e della naturalezza di questo idiota che conserva la preziosità dell'anima mai intesa come qualcosa che appartiene all'uomo ma che al contrario possiede l'uomo.
E l'urlo è una forma di liberazione che uccide. Ma ad uccidere più del suono è la forza malvagia che il suo corpo deve espellere, una forza che i comuni essere umani non sanno di possedere. Crossley ha capito come trovarla e come controllarla, ma le forze terrene, gli impusli umani sanno essere addirittura più forti.
The Shout deve alle sue ambientazioni grezze la maggior parte del suo fascino, e Jerzy Skolimowski utlizza magnificamente la natura dei paesaggi e degli avvenimenti e li trasforma in qualcosa di inquietante, silenzioso, modesto ma potentissimo. Lo scarno scenario rende facile la focalizzazione sulla storia e sulle magnifiche interpretazioni di Alan Bates, John Hurt e Susannah York che con umiltà si lasciano trasportare dagli eventi guidati e cullati dalla mano ferrea di Skolimowski. L'effettiva sensazione di fascino e misticismo però si lascia alcune volte dominare da un vago senso di ermetismo autocompiaciuto, un gioco di “dire non dire” troppo costruito che alcune volte risulta poco spontaneo. Ma il fascino ipnotico di Alan Bates fa dimenticare ogni imperfezione. Non sempre il Cinema riesce a regalare interpretazioni così sommesse, silenziose e bellissime; il Charles Crossley di Bates è una di queste rarità.

martedì 10 agosto 2010

Random Thoughts # 6

Mean Streets (1973)
Scorsese affila le armi per quella che sarà da li a poco una delle più belle filmografia del cinema americano e non solo. Un film solido e sicuro che affronta tanti drammi, interiori e sociali. La crisi della religiosità, la crisi della propria identità personale ed etnica. La voglia di cambiare si scontra con la realtà dei fatti che assomigliano a catene indistruttibili che rendeono impossibile ogni movimento. L'abitudine e la rassegnazione ad essa è un cancro che uccide lentamente. Straordinari gli attori.

L'Armata Brancaleone (1966)
Un film che invecchia bene, come il vino buono. C'è molto più del puro divertimento, è una comicità polemica, attenta e tagliente. Una irrenefrenabile cascata di tagliente sarcasmo che ritrae l'italiano medio sempre uguale nelle sue abitudini e nella sua famigerata ma ormai indistinguibile "arte dell'arrangiarsi". Un titolo che è una leggenda. L'Armata Brancaleone come un modo di vita e una linea di pensiero. Indimenticabile, un film che ha fatto storia.

Sfida Infernale (1946)
Ford comincia ad esplorare la filosofia dalla "lontananza" da uno scopo, dalla propria terra, dalla propria famiglia.
Una lontananza sopperita momentaneamemte da altri fini che non riescono comunque a coprire il vuoto della nostalgia delle occasioni perse e dei volti mai più rivisti. L'azione è pura poesia, i personaggi hanno una integrità e dignitià che solo uno come Ford poteva conferire senza scadere nella falsità, e sono accompagnati da un'aurea di misticismo in un'ambiente lirico e romantico, ma anche così materiale. E poi, che bel nome che è Clementine.

Cane Randagio (1949)
Solidissimo noir diretto con astuzia da Kurosawa. Più che una storia di uomini è più una storia di una città, Tokyo. La ricerca della pistola ha un senso tutto metaforico chiaro se raccolto nell'interessa del film, un po' meno chiaro se si cerca nei dettagli della narrazione. E' appunto nel complesso che Cane Randagio va preso, la ricerca di una metropoli come Tokyo, i suoi sobborghi e bassifondi di trovare un'identità a cavallo tra la tradizione e l'innovazione.

La Donna Fantasma (1944)
Una delle punte del cinema noir anni 40. Siodmak riprone con successo l'atmosfera sporca di The Killers regalando una delle perle del cinema del genere. Colpisce per la sua astuzia nel giocare con la sceneggiatura con l'intreccio. Seppure i personaggi sembrano un po' stereotipati hanno tridimensionalità e animo.

Australia (2008)

[Australia, USA/Australia, 2008, Avventura, durata 155'] Regia di Baz Luhrmann Con Hugh Jackman, Nicole Kidman, David Wenham, Bryan Brown, Bruce Spence, Jack Thompson, David Gulpilil, Ben Mendelsohn, Jacek Koman, Bill Hunter

Potete dire qualsiasi cosa: che è troppo lungo, troppo melenso, troppo di qua, troppo di la, troppo di tutto. Balle. E' un film di Baz Luhrmann, questo dovrebbe bastare. Ed è per questo che va preso: o lo si ama o lo si odia, non esiste la via di mezzo. Ancora una volta Luhrmann riprende lo schema classico, il genere classico e lo trasforma, lo fa suo, lo modifica e ci fa quel che vuole. E se forse in USa l'hanno stroncato così tanto, è perchè non è andata giù il fatto che il genere americano per eccellenza sia stato "adagiato" alle esigenze di una storia australianissima, ma che con un pò di impegno si trasforma in una storia universale. O forse perchè gli yankee si sono riconosciuti nel ruolo dei cattivi bianchi che ammazzano e stuprano aborigeni come loro hanno fatto coi pelle rosse? Forse. Ma Australia non ha bisogno di troppo impegno, è una storia semplice, una storia già raccontata ma come è raccontata è qualcosa di maestoso. Non c'è una bellezza intellettuale, ma se tutti smettessero i panni del critico snob con il Corriere sotto il braccio, si apprezzerebbe molto di più la bellezza semplice di questo kolossal. Come tutti gli altri film di Luhrmann la storia non ha granchè importanza, ma sono le scelte dei protagonisti, le loro storie, i loro sentimenti che colpiscono, che sono veri e sinceri. C'è chi lo chiamerà polpettone, e ci può stare: perchè i cattivi sono veri cattivi, i buoni sono davvero buoni, e la storia è così come viene raccontata. Due meriti a Luhrmann: descrivere con così tanta passione i costumi, le usanze e (purtroppo) la realtà degli aborigeni è stato il compito più difficile ma anche quello più sentito; cogliere la bellezza sublime di una terra selvaggia e innocente come l'Australia gli è riuscito benissimo. Australia è un viaggio, è un paese; ma è anche Sarah Ashley, è il Mandriano, è Nullah e sono tutti i protagonisti del film. Australia è un kolossal, è un film epico e va preso così, per quello che è: un film sui sentimenti, come tutti gli altri di Luhrmann. Nè più, nè meno. Australia è la storia di un gruppo di persone, è la storia di una famiglia, è la storia di una casa, è la storia di un paese, la storia di una terra: "la tua terra, la nostra terra".

Il Dubbio (2008)

[Doubt, USA, 2008, Drammatico, durata 143'] Regia di John Patrick Shanley Con Meryl Streep, Philip Seymour Hoffman, Amy Adams, Viola Davis, Lloyd Clay Brown, Joseph Foster, Bridget Megan Clark, Lydia Jordan, Paulie Litt, Matthew Marvin

Il Dubbio è con sorpresa, un film astutissimo, subdolo ed enigmatico. E non poteva essere altrimenti visto il titolo. Il Dubbio insinua il sospetto, mostra la felicità morbosa di insinuarlo, un serpente che striscia con maligna ambuguità, ma che alla fine mostra anche il pentimento, la terrificante sensazione di essersi allontanati dalla verità, per un capriccio, o per arroganza, o semplicemente per la stessa voglia di verità a tutti i costi. E' un film che gioca sulla sceneggiatura, dalle tinte ambigue e incomprensibili, che si basa sulle parole non dette, sulle cose non fatte, dalla verità appena sfiorata, sulle vicende raccontate a metà. E' sicuramente impressionante il ruolo degli attori, tutti bravissimi e capacissimi di non sforare nell'esagerazione. Un film dallo sfondo sociale, una critica ferocissima alla Chiesa (e forse, troppa carne sul fuoco, tutto appena sfiorato ed intuito, ma il film fortunatamente non si voleva basare su questo), ma è tutto incentrato sulla capacià del dubbio di cambiare in modo irreversibile la vite delle persone, volendo o non volendo. La scena finale è di una profondità che raramente si vedono in film di questo genere, sopratutto negli ultimi anni (e la Streep, c'è poco da fare, questa 15a nomination se l'è meritata tutta). Per quasi tutto il tempo il film rimane in un limbo di straziante indecisione e di dolorosa dubbiosità disturbando e infastidendo, accompagnato da una fotografia dalle tinte freddissime e da una struttura (eccesivamente) teatrale. Ma alla fine si offre con troppa facilità una soluazione e forse questo è il suo difetto maggiore. Sarebbe stato bello non dare nessuna risposta e neanche farla intuire. Sarebbe stato bellissimo rimanere indecisi e cullarci, appunto, nel dubbio.

lunedì 9 agosto 2010

Magnolia (1999)

Il passato è una terra straniera. Pioggia di rospi: una calamità, una liberazione, un orrore, un miracolo. Un film sulle metafore, sui simboli, sui significati di cosa è il passato, di come influisce il nostro presente e di come ci mette alla prova per poter organizzare il nostro futuro al meglio. Il presente diventa passato troppo in fretta e il futuro è così vicino da sembrare inesistente. E allora come fare? Far pace col proprio passato non metterà le cose apposto, semplicemente donerà a tutti la parvenza di poter vivere quell'istante tra il presente e futuro e tra presente e passato con più armonia. Lo sanno bene i nove petali di una magnolia, le nove storie di Magnolia collegate da un filo sottilissimo e piccolissimo proprio a simboleggiare quanto sia labile e difficile distinguere il confine tra i tre tempi di una vita. Elegante, raffinato, forse un po' tendente all'autocompiacimento, ma un opera forte, un pungo in faccia, e un film di 9 vite che P.T.A racconta dal dentro per poi arrivare a conclusioni universali. Dal piccolo per arrivare al grande, 9 vite comuni che si trasformano in verità assolute. P.T.A. è troppo intelligente per scadere in moralismi, non c'è morale poichè nel dolore e nel rammarico c'è solo la disperazione, c'è solo la volontà di sembrare migliori e di rendere la propria vita migliore, però con la continua angoscia che il passato si fa sempre più grande e il futuro sempre più piccolo.

Random Thoughts # 5

In Questa Nostra Vita (1942)
Drammone targato Warner Bros che sfrutta senza infamia e senza lode lo star power di due signore come Bette Davis e la de Havilland. Un film sopratutto legato alla forza interpretativa della Davis e alla sua grazia "sgraziata", sa cosa fare e come dev'essere fatto, la sua spavalda sicurezza si percepisce e non è un male. Ma il film non è profondo, fatica a reggere il filo, e Huston alla sua seconda regia sembra quasi intimorito dalla potenza della Davis che anche se lasciata in tutta libertà riesce comunque ad essere precisa e mirata nell'esporre le sue emozioni. Per questo motivo, copre, purtroppo, la delicatezza di una De Havvilland ancora sotto effetto "Via Col Vento", ma che avrebbe meritato più attenzione per sviluppare un personaggio potenzialmente interessante.

Volto Di Donna (1941)
Sul volto di Joan Crawford si potrebbero scrivere fiumi di parole. Ma è questo film di Cukor che ci consente di comprendere la sua importanza, la sua bellezza struggente, la sua potenza nel poter ritrarre con durezza ma anche con dolce femminilità, il dolore della "donna". In questo caso la donna è Anna, incattività dalla società, con quella sua cicatrice che rappresenta il risultato di una società arida e indifferente al sensibile bisogno di comprensione da parte della donna, sempre vittima dell'ignoranza umana, che la vede come un pesante fascio di sentimenti ed emozioni difficile da capire e da sopportare. Joan Crawford guidata dalla mano sicura e comprensiva di Cukor (che anche cambiando registro narrativo, con tinte più drammatiche, riesce a rimanere ancora meravigliosamente sensibile e delicato), nell'irrequietudine del suo spirito, nell'irregolarità del suo volto, racconta l'Odissea di una donna con la morte nell'animo e negli occhi, ma che ritroverà la via della salvezza nella semplice potenza dell'amore e della vita stessa.

Vertigine (1944)
Non ci sono altri aggettivi per descrivere Vertigine se non erotico. Grande noir del periodo d'oro hollywoodiano, dark, nero nel senso più completo del termine. Il titolo italiano, più di quello americano, descrive il sentimento portante del film. Una vertigine dal sapore sensuale ma anche terribilmente drammatico. La tensione sale fino a livelli insostenibili del finale. Gene Tierney da mozzare il fiato, stupemda.


La Ragazza Di Campagna
Dramma strappalacrime e sentimentale che ha reso Grace Kelly una star, procurandole un meritato Oscar. Straordinaria, emozionante, bellissima. Un film che vale la pena ricordare se non altro per la bellezza delle interpretazioni. Anche Crosby in una insolita ma efficacissima aurea negativa e drammatica regala una prova convincente e intensa: riesce a dare un tocco di classe anche ad un personaggio patetico e malinconico come Frank Elgin, una prova non facile superata brillanetemente. Bravo anche William Holden ma la parte del bello e fascionoso forse cominciava a stancarlo.

sabato 7 agosto 2010

Ordet- La Parola (1954)

Un film di Carl Theodor Dreyer. Con Henrik Malberg, Emil Hass, Birgitte Federspiel, Ove Rud, Ejner Federspiel, Gerda Nielsen, Hanne Agesen, Kirsten Andreasen, Sylvia Eckhausen, Cay Kristiansen, Preben Lerdorff Rye, Ann Elisabeth Rud, Susanne Rud, Henry Skjær, Edith TraneTitolo originale . Drammatico, b/n durata 124 min. - Danimarca 1954.

Morten, il patriarca della famiglia Borgen, da sempre solido nella sua fede, vive un momento di crisi profonda nel suo rapporto con Dio a causa dell'ateismo del primo figlio Mikkel, la pazzia del secondo genito Johannes (studente delle teorie di Kierkegaard e che ora si crede il nuovo Messia) e il terzo genito Anders, che vorrebbe chiedere la mano ad una ragazza figlia di un sostenitore della confessione a lui avversa. L'unica a portare un po' di serenità nella famiglia è Inger, moglie di Mikkel, madre di due bambine ed incinta di un maschietto.

Ordet sintetizza l'opinione che Dreyer ha sulla religione; o meglio come gli uomini vedono la religione. Perchè per Dreyer la religione è in sostanza l'atteggiamento con cui l'uomo esprime la sua fede.
Se il regista danese ci aveva già abituato al mistico e alla ricerca del contatto con Dio (La Passion de Jeanne D'arc su tutto), questa volta gioca forte e mette in discussione tutti i dettami e i dogmi che la religione cristiana ha mandato avanti per più di due mila anni e porva a riportare ad una dimensione di semplicità e immediatezza quel rapporto frastagliato che lega Dio e gli uomini scomodando il miracolo dei miracoli: la resurrezione.
Dio si trova nelle cose più semplici e nella semplicità dell'uomo di saper chiedere e rivolgersi a lui. E' la lezione che Johannes, figlio di Morten ritenuto pazzo, infligge a tutta la famiglia troppo occupata dai sentimenti terreni per non riconoscere la grazia che Dio concede ogni giorno.
La cecità dell'uomo di volere sempre di più distoglie l'attenzione dalle cose essenziali ma straordinarie della vita. Il Dio di Dreyer non è necessariamente cristiano, è chiaramente un simbolo di purezza e di una coscienza libera da pregiudizi, esattamente come quella di Johannes o come quella della figlia maggiore di Mikkel e Inger, gli unici a sapersi rivolgere a Dio.
L'austerità delle ambientazioni, l'indeterminatezza dello spazio e del luogo conferisce all'opera un aspetto più solenne che si porta avanti fino ad un finale molto emotivo (quasi insolito per Dreyer abituato ad un rigore stroardinario anche nei sentimenti) in cui la sacralità e la materialità si fondono, dove l'amore divino e quello terreno si uniscono. Il miracolo non è la resurrezione ma la possibilità di ritrovare se stessi attraverso la candidezza dei gesti, e sopratutto vivere in pace con gli altri. La vita è preziosa ma anche troppo fragile per poterla sprecare nella complessità delle macchinazioni della mente umana. Lo spirito come il cuore sono due entità molto più semplici di quanto si immagini e devono essere la base di una vita serena e capace di risconoscere la bellezza delle cose che ci sono state donate.

Fuga Dalla Scuola Media (1996)


Un film di Todd Solondz. Con Christina Brucato, Eric Mabius, Heather Matarazzo Titolo originale Welcome to the Dollhouse. Drammatico, durata 87 min. - USA 1996.


Il regista Todd Solondz a metà anni 90 si fa notare prepotentemente con questo piccolo gioiello di cattiveria e acrimonia. Nel mondo quasi fatato (il titolo originale "Welcome to Dollhouse rende meglio l'idea) e perfetto della provincia americana si perpetua sulle spalle della piccola Dawn Wiener un sistema di torture psicologiche che farebbe paura al più accanito dei serial killer. Lei goffa e bruttina è in perenne competizione con la sorellina più piccola (sulla quale ha vaghe e isolate fantasie omicidie), aggraziata e simile ad una Barbie; i compagni di scuola la odiano ed è l'oggetto di scherzi di bulletti e reginette di bellezza; i genitori la ignorano completamente, ma ancor peggio nei pochi istanti in cui si accorgono della sua presenza si accaniscono su di lei scambiando il suo atteggiamento da ribelle come capricci e non come un disperato tentativo per farsi notare.
Nemmeno la cottarella per l'amico liceale del fratello maggiore riuscirà a darle un po' di sostegno.
Troverà un po' di comprensione solo nel bulletto della scuola, anche lui maltrattato da un sistema che non riesce a comprenderlo, ignorato dai genitori e stracarico di rabbia repressa che infligge sotto forma di minacce sessuali su Dawn che in realtà non sembra tanto disprezzare, perchè se non altro, c'è almeno qualcuno che si occupa di lei.
Un film che non lascia tanto all'immaginazione ed è direttissimo nella sua crudeltà. Diversi momenti di violenza (fisica ma sopratutto psicologica) che si scatenano su Dawn e che non riesce a respingere, un muro di incomprensione e indifferenza la separa da un mondo che lei vede dall'altra parte della staccionata e che non riesce toccare. Le sue fantasie, tipiche di una bambina di 11 anni, si infrangono con la dura realtà alla quale non è mai stata preparata. Un mondo di adulti indaffarati e distanti che crescono figli incattiviti e abbruttiti dalla loro indifferenza e noncuranza. La critica di Solondz è palese e molto semplice: Dawn è l'elemento che incrina il fragile equilibrio della tipica famiglia americana dalle vacanze al lago, dalla TV via cavo, dalla carta da parati color pesca e berlina nel garage, abbellita solo dalle inutili cose materiali con le quali si circonda ma completamente priva di quell'amore e pazienza che rende un casuale aggregato di persone una vera famiglia.
Senza happy-end come è giusto che sia, Dawn rimane da sola circondata da indifferenza e con la difficoltà di dover crescere senza una guida, e accerchiata da androidi tutti uguali che agiscono in modo uguale, sarà solo lei nella sua diversità ad essere quella mina pericolosa che vaga per la piccola provincia del New Jersey, pronta ad esplodere.

venerdì 16 luglio 2010

Bunny Lake E' Scomparsa (1965)

Un film di Otto Preminger. Con Carol Lynley, Keir Dullea, Laurence Olivier, Noel Coward Titolo originale Bunny Lake is Missing. Giallo, b/n durata 107 min. - Gran Bretagna 1965.
Una ragazza madre va a scuola a riprendere la figlioletta, ma la bambina è scomparsa, anzi sembra quasi che non sia mai esistita. Con l'aiuto del fratello, la donna la ricerca mentre un ispettore di polizia s'occupa del caso.

Ottto Preminger ci ha abitutato alle belle storie di suspance, fin dagli esordi noto per la sua abilità di costruire storie complesse al limite della follia ma che straordinariamente rimangono sempre nei posati limiti della normalità del racconto con una struttura formalmente classica. Bunny Lake Is Missing gioca sull'insieme dei personaggi e delle storie che si intrecciano, e costruiscono un delicato quanto elegante complesso di sensazioni ed emozioni che stordiscono e non lasciano mai vedere con chiarezza se non alla fine, il risultato conclusivo.
Thriller dalle tinte un po' cupe e grottesche, con personaggi addirittura per certi versi squallidi e contorni un po' disturbati, è una storia di suspance con un alto tasso di drammaticità. E' doveroso e anche doloroso immergersi nella storia familiare dei Lake, e non c'è niente che viene lasciato al caso, un background familiare complesso che è giusto non raccontare ma solo intuire; e la pazzia è palpabile, il dramma di Ann toglie il respiro ed è qui che sta la grande genialità di Preminger: rendere possibile che ognuno si senta parte della storia, la possegga in un certo senso.
Registicamente non ci sono grandi novità, il timbro è sempre quello, inconfondibile. Belle interpretazioni, con un Olivier ancora in grandissima forma e un duo di attori protagonisti (Lynely-Dullea) che svolgono il loro lavoro più che dignitosamente ben consapevoli della complessità dei loro personaggi.
Siamo lontani dai thriller sofisticati della vecchia Hollywood, i personaggi si fanno moralmente più scadenti e la storia priva di fasti e certamente la stanchezza del regista si fa sentire. Non è infatti il suo lavoro migliore, ma sicuramente il migliore fra gli ultimi. Il suo interesse per il torbido, e per la morte sopratutto (mentale e fisica) sono tematiche onnipresenti in ogni suo film e quando sono accompagnati da una buona storia e un buon intreccio, il risultato non può essere che soddisfacente.

mercoledì 30 giugno 2010

La Nota Blu (1991)

Un film di Andrzej Zulawski, Fr. 1991. Con Sophie Mercau, Janusz Olejniczak

Zulawski, nel bene e nel male, è stato ed è tutt'ora uno degli autori europei più importanti degli ultimi 50 anni. Stessa scuola di Polanski, diverse forme di cinema. Zulawski col tempo, ha affinato i suoi tratti distintivi di una regia incentrata sulle forme esteriori, sui colori, sulle luci, sulla forza delle sue storie spesso scioccanti. Ma quello che alcune volte manca un po' a Zulawski, e qui si vede, è la capacità di unire ad una messa in scena perfetta, una storia forte che non faccia da cornice al quadro ma che sia al contrario il quadro stesso.La Note Bleue respira sulle note di un Chopin troppo macchiettistico, e il film decolla veramente nei rari, preziosi momenti di intimità con Madame Sand. Questo sta a significare che con meno volontà di stupire, com una realizzazione forse meno urlata e meno chiassosa si sarebbe potuto raccontare una delicata storia d'amore. Ma in effetti, spesso le esigenze e i desideri di chi assiste ad un'opera sono deluse, perchè c'è la tentazione di proiettare ciò che si immagina o ciò che si vorrebbe immaginare nel film (nella storia) che si sta guardando. E allora La Note Bleue, preso per quello che è in realtà, è un nobile tentativo di unire storia e arte, è un'abile rappresentazione della società francese di metà '800, un po' antenata della Belle Epoque, a cavallo di due ere (quella moderna e contemporanea), un po' colorita e un po' movimentata, un po' gaia ma anche malinconica. Sophie Merceau brilla, maestosa, sensuale e bellissima. Janusz Olejniczak fa del suo meglio ad interpretare il sofferto e malato Chopin, ma la sua recitazione è troppo caricaturale, troppo eccitata e teatrale. In sostanza, un film dall'impressionante impatto visivo che si dilunga un po' troppo quasi dovesse rimande all'infinito il momento clou della storia, quado è l'elemento che meno viene sviluppato, l'amore tra Chopin e Madame Sand ad essere il vero pilastro e la vera rivelazione del film.

sabato 12 giugno 2010

Bright Star (2009)

Un film di Jane Campion. Con Abbie Cornish, Ben Whishaw, Paul Schneider, Kerry Fox, Edie Martin, durata 120 min. - Gran Bretagna, Australia, Francia 2009
1818. Il ventitreenne John Keats e la sua vicina di casa Fanny Brawne si conoscono, grazie all'interesse della ragazza per le sue poesie, si frequentano, si scrivono, si fidanzano, nonostante le condizioni economiche disperate del poeta. Minato dalla tubercolosi, Keats si vede costretto a partire per l'Italia, dove il clima è migliore e dove troverà la morte, nel febbraio del 1821.
John Keats è uno di quei rari esempi nella nostra storia che dimostra come la bellezza di una vita non si giudica dagli anni che ha vissuto ma dall'intensità con la quale è stata vissuta.John Keats è morto giovanissimo, ma nella sua pur breve vita è riuscito a percorrere un viaggio intenso scandagliato da momenti di forte passione e di grande dolore. L'amore che Keats provava per la vita e per l'amore stesso è descritto nelle sue poesie, impregnate di quella romantica arrendevolezza ai sentimenti e del rifiuto di pensare al mondo e alla vita solo in termini razionali. Un romanticismo fortemente ancorato a figure magiche, poetiche, edoniste lontane dal furore della ragione frutto degli strascichi dell'Illuminismo ancora presente, ma creatore di una vita ideale formata da passioni fortissime che quasi consumano l'animo umano. Passioni che, anche se negative, meritano sempre di essere vissute.Forse Keats, ancor prima di morire di tubercolosi, il male che l'accompagnò per tutta la vita, morì per un altro male: l'amore per Fanny Brawne, donna in qualche modo moderna, volitiva ma anche molto fragile, irraggiungibile che non ha niente da invidiare alla Beatrice di Dante o alla Laura di Petrarca: come loro, anche lei è stata resa immortale dai versi di un poeta.Ma se per Dante e Petrarca le loro amate rappresentavano la salvezza, per Keats la sua amata è una condanna. E proprio nel film di Jane Campion ci si sofferma su questo tragico, inevitabile, indistruttibile legame tra il poeta e Fanny, quasi a voler dimostrare che quando di una cosa si ha bisogno, anche se fa male, non ci si può mai rinunciare.Quella di Fanny è una figura femminile diversa, lontana da Beatrice o da Laura o dalla "dark lady" di Shakespeare: lei è sfuggevole non perché eterea nella sua natura, ma perché è tanto forte quanto lo sono le parole che la descrivono, è anche lei autrice e artefice di quei versi nella stessa misura del poeta e Keats si rende conto che pur sentendola sua, pur avendola fatta sua nelle proprie poesie non riuscirà mai a possederla veramente. Jane Campion non è nuova a questo genere di racconti di donne e di femminilità e anche questa volta non dimentica il lato forte della personalità della sua protagonista, come non dimentica la sua sensibilità e il suo sconforto nel dover vivere in un'epoca che non rispecchia e non rispetta la propria personalità. Ma come Ada, Isabel, Ruth, anche la sua Fanny rinnega l'unica persona in grado di capirla per paura di rimanere intrappolata non solo in un amore drammatico ma in una comprensione che molto probabilmente la priverebbe della sua libertà e in un certo senso anche del suo disagio che per lei è quasi essenziale. La regista neozelandese ci sa fare con le sue protagoniste e dirige una splendida Abbie Cornish: la sua Fanny diventa il centro assoluto della vicenda, il punto cardine attorno al quale gira l'intero film, e i suoi vestiti, la sua voce, la natura, le immense distese di fiori nei quali cerca conforto, sono tutte parti di essa e sono un eccellente contorno ad una storia d'amore irrealizzabile. Se per Keats Fanny è necessaria, per lei è necessario vivere nella sua natura di creatura inquieta e libera. Entrambi schiacciati da due mali che impediscono loro di esprimersi completamente e di vivere realmente l'amore. Due opposti che si attraggono per la forza di gravità delle loro solitudini ma pur desiderandosi, quasi inconsciamente, sanno di non poter rimanere insieme: Fanny a causa della sua natura, Keats a causa della sua malattia e della sua condizione economica. E la consapevolezza di un amore destinato a finire ci ha regalato molti dei versi più belli della letteratura inglese e mondiale. Tante sono le poesie che Keats, direttamente o indirettamente, ha dedicate a Fanny, ma quasi certamente tutto il suo lavoro è stato dedicato alla vita e al dolore che essa spesso provoca quando la si vive troppo intensamente: "Spesso il piacere è un ospite passeggero, ma il dolore ci avvinghia crudelmente" .


PUBBLICATO SU LOUDVISION.IT (11/06/2010)

lunedì 31 maggio 2010

Holy Smoke- Fuoco Sacro (1999)

Un film di Jane Campion. Con Harvey Keitel, Kate Winslet, Pam Grier, Paul Goddard. USA 1999.

Ruth (Kate Winslet) è una bella ragazza australiana che si reca in India alla ricerca di una nuova spiritualità. Quando la famiglia viene a sapere che Ruth viene plagiata da un Guru del posto, preoccupata, decide di affidare a P. J. (Harvey Keitel), consulente spirituale, il compito di riportare a casa la ragazza.

Questa volta Jane Campion abbandona le tonalità scure di eroine in continua ricerca della loro libertà per arrivare a quelle più dorate e calde della spiritualità, dell'India e di Anna, ragazza già emancipata che al contrario delle sue “colleghe” Ada e Isabel vuole invece disfarsi della sua vita.
Reduce da due capolavori come The Piano e Ritratto Di Signora, Holy Smoke non è all'altezza dei due film precedenti ma può essere inteso comunque come un degno esperimento dedicato alla pricerca della spritualità tipica della donna moderna. Ruth, ragazza sveglia, tenace, sensibile (resa magnificamente da una Kate Winslet reduce da Titanic) è l'evoluzione delle altre donne che la Campion ci ha raccontato. Una ragazza finalmente capace di disporre della sua vita e della sua sessualità e per questo alla ricerca di nuone sensazioni.
Ruth è il primo personaggio veramente forte della filmografia della Campion, non più vittima ma “carnefice”, non pià sottomessa alla famiglia alla società ma sarà lei a sottomettere alle sue volontà chi le sta accanto. La sua evasione in India è molto più che un capriccio, è la voglia di scappare da un mondo di ipocrisie e consuetudini conservatrici.
Purtroppo, il rapporto tra Ruth e il suo “salvatore” P.J. non sembra avere quella naturale esigenza di esistere e sembra sopravvivere più per disperazione. Tuttavia è curioso vedere chi in questo rapporto amore/odio sia davvero il salvatore. Una situazione di ambiguo desiderio di trovarsi l'uno accanto all'altra che lentamente evince come la “spiritualità” si possa trovare sopratutto nelle cose più semplici.
Natura arida, selvaggia, paesaggi australiani che sembrano post-apocalittici offrono uno scenario perfetto a questa vicenda. L'ambiente neutrale di una natura completamente immobile e osservatrice che lascia libero sfogo alle azioni di Ruth e P.J.
La regia della Campion è precisa, forse fin troppo, alcune volte rischia di rasentare il manierismo e l'attenzione per la forma spesso ruba l'anima alle situazioni. Inutile dire che la solidità delle interpretazioni della Winslet e di Keitiel aiutano il film ad alzarsi molte volte dalla ripetitività immobilismo.

In The Mood For Love (2000)

Un film di Wong Kar-wai. Con Tony Leung, Maggie Cheung, Rebecca Pan, Lai Chen, Gong Li Drammatico, durata 98 min. - Hong Kong 2000
Hong Kong 1962. L'impiegata Su Li-zhen e il giornalista Cho Mo-wan, entrambi di Shangai e sposati con coniugi spesso e volentieri assenti per lavoro, s'incontrano nella casa dove abitano porta a porta, stringono un'amicizia amorosa, rafforzata dal comune sospetto di una relazione tra i rispettivi coniugi.

L'eleganza in un film, quella pura e semplice, non costruita, ma spontanea e libera, è davvero cosa rara e difficile da creare. Ma non per Wong Kar Wai, che realizza un opera di finissima raffinatezza e di una bellezza magistrale. I corpi fluttuano e volano delicatamente come delle foglie mosse dal vento e le complessità delle due anime protagoniste insieme alla sublime finezza dei loro gesti sono la cornice perfetta di un film che parla d'amore, in tutte le sue forme. L'amicizia, la gelosia, la fiducia, la rabbia, la tristezza sono solo dei momenti che Wong immobilizza col rallenty e li rende magicamente sensuali sulle note Michael Galasso.
Si sentono gli odori, si sentono i sapori, si vedono vivaci i colori di un amore che rimane segreto e sopito, sonnolente e inafferrabile. Come si sentono inafferrabili i due protagonisti che hanno paura anche solo di sfiorarsi e che solo alla fine troveranno il coraggio di toccarsi, con il loro amore che si trasforma velocemente in un sogno proibito, una partita persa a majong, un passato che si può “solo vedere ma non toccare”. Una regia limpidissima e così attenta a non perdere neanche una briciola di un amore tra due solitudini che si incontrano, quella magia dell'amore nato per caso e non per desiderio, nato per il rispetto del dolore altrui, nato per condividere una tristezza comune. Tony Leung e Maggie Cheung recitano così sinceramente e così delicatamente che sembrano delle piacevoli brezze estive, e ritraggono perfettamente la malinconia di una consapevolezza che il loro sarà un amore segretamente e gelosamente custodito per sempre tra le mure di un templio.

Heat- La Sfida (1995)

Los Angeles. Un rapinatore, McCauley (Robert De Niro) e la sua fedele banda criminale segnano un colpo spettacolare ad un furgone portavalori. Chiamata ad investigare è la squadra rapine e omicidi, capeggiata da un incrollabile poliziotto, Vincent Hanna (Al Pacino) che fiuta subito l'odore di una preda difficile.

Spesso è difficile trovare delle giuste chiavi di lettura in film complessi come Heat. Il film di Michael Mann tuttavia può essere scisso in due storie che sommandosi danno vita alla vicenda del film stesso. La prima storia è quella del gangster Neel, uno tutto d’un pezzo, glaciale, quasi irreale, vestito sempre di completi scuri e con una rigida disciplina che sacrifica affetti, amori, sentimenti. L’altro è il tenente Vincent, anche lui uomo rigido ma travolto dall’incapacità di saper coniugare giustamente amore e lavoro. Il primo è totalmente privo di una capacità affettiva, o quasi, poiché, forse nel momento più insolito della sua vita, decide di innamorarsi di fidarsi, di lasciarsi andare. Il secondo invece nel momento sbagliato si rende conto che non può in alcun modo sacrificare nulla della sua vita o del suo lavoro, non riesce a comunicare anche se vorrebbe, non riesce a liberarsi dei suoi tormenti. Cos’hanno in comune queste due figure, simbolo di una città come quella di Los Angeles, costellata da criminali e poliziotti, tutti dediti più alla sopravvivenza che al rispetto delle proprie regole? E in cosa sono diversi? Se Mann ci propone una visone sentimentalistica e affettiva dei due personaggi, risulta naturale non solo confrontarli caratterialmente ma anche intellettualmente. Quali sono i loro scopi, i loro fini, le loro idee, le loro opinioni? Anche se entrambi eseguono i loro mestieri con sorprendente, quasi inusuale, meticolosità, uno (Neel) lo fa per scruopolo, per professionalità l’altro (Vincent) lo fa per svago e soprattutto per esigenza.

Neel ha fini, Vincent ha scopi. Mann ci fa capire quanto entrambi si sentano così simili, ma anche così distanti proprio per le differenze che definiscono le loro vite; ma sentono che c’è una qualità che li avvicina, quasi come due amici d’università, quasi come due compagni di gioco d’infanzia: la necessità di sopravvivere, chi alla sua vita, chi ai suoi demoni. Ma non è solo questo il tema che Mann ci propone, non è solo il confronto fra due facce della stessa medaglia che ci vuole offrire. Un altro aspetto è quello della vendetta, un altro è quello dell’amicizia, un altro è quello dell’abnegazione, tanti spunti che insieme offrono una panoramica dei sentimenti più comuni, ma anche più deleteri se compaiono nel momento inopportuno. La bravura dei due attori protagonisti Pacino e De Niro non può essere commentata poiché è difficile aggiungere qualsiasi cosa alla perfezione. Si incontrano solo in due scene, ma è giusto così, è giusto che entrambi abbiano i loro ruoli, il loro personaggio incondizionato dall’altro ma vicino all’altro. Uno distaccato, uno concreto; uno etereo, uno terreno. Così diversi nei loro caratteri ma così simili nei loro difetti, nei loro pensieri. La scena finale è pura poesia, la scena della caffetteria magistrale. Due attori, due tipi di recitazione a servigio di una regia che è impeccabile. Un regia notturna in una città come Los Angeles teatro bellissimo e suggestivo di una scena sofferta. Una regia nobile, sofisticata, pura, limpida, libera da ostacoli. Un film che è Cinema davvero, e per una volta non si deve avere remore di chiamare capolavoro un opera intensa, intrisa di passione, di vorace poesia.